La Palestina e la commemorazione della Resistenza – ilFattoQuotidiano

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(…) il diritto di dissentire ed esprimere opinioni diverse non comporta certo quello di aggredire fisicamente chi porta una kefiah o agita una bandiera palestinese. Cosa purtroppo avvenuta il 25 aprile a Roma durante la manifestazione commemorativa della Resistenza. Quando il servizio d’ordine organizzato di un settore della comunità ebraica si è arrogato  il potere di decidere chi poteva manifestare e chi no, sanzionando in qualche caso questi ultimi con una breve ma intensa razione di cazzotti. (…)

QUI L’ARTICOLO INTEGRALE

Comunicato dell’ass. antimafie “Rita Atria” sulla sentenza del TAR (vicenda parco commerciale)

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 Questa Associazione apprende con grande soddisfazione la notizia che il Tar ha annullato la delibera del 2009 del Consiglio Comunale di Barcellona Pozzo di Gotto istitutiva del Parco commerciale. Questa sentenza conferma la bontà dell’impianto dell’esposto che il 4/01/ 2011 fu presentato dall’Associazione Antimafie “Rita Atria” e dalla associazione “Città Aperta” al Prefetto di Messina e alla Procura della Repubblica di Barcellona P.G..

QUI IL COMUNICATO INTEGRALE

 

 

 

STORIE DI STRAGI, RESISTENZA E ANTIFASCISMO. DA “L’ITALIA CANTATA DAL BASSO” COPPOLA ED

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Memoria di aprile

Da L’Italia cantata dal basso” di Pietro Orsatti – Coppola editore

Le valli di Comacchio immerse nella nebbia. Non è difficile immaginarsela così la mattina del 25 aprile 1945. Anche perché in qualche archivio dell’Anpi c’è un vecchio filmato sgranato che mostra una barca sul fiume carica di partigiani. Pochi fotogrammi ripresi proprio quella mattina. Sullo sfondo, appena visibile nella nebbia, un canneto. A pochi chilometri Ferrara. Ma a quei tempi pochi chilometri rappresentavano una barriera quasi insormontabile, un mondo intero.

A Ferrara, mi raccontavano i miei fin da bambino, arrivarono gli inglesi. I partigiani, apparentemente, si fecero da parte. Le cose andavano così a quei tempi. Quelli che si erano liberati da sé che si facevano indietro davanti ai liberatori stranieri. Poche settimane prima c’era stata la rotta. Sul Po la strage dei tedeschi in fuga. Non c’erano più ponti per passare il fiume in piena. E i soldati si erano buttati nel fiume affidandosi a qualsiasi zattera improbabile, a qualsiasi oggetto galleggiante raccattato durante la fuga. Il fiume non ebbe pietà. Per giorno e giorni affiorarono cadaveri trascinati dalle acque. Le cose andavano così in quell’aprile 1945.

Quando arrivarono a Ferrara gli inglesi, di tedeschi non c’era ombra. Da settimane. Ma la liberarono lo stesso.

Da qualche parte ho visto una copia di uno dei giornali clandestini dell’epoca. Si chiamava “La Scintilla”, lo stampavano in qualche casale sperduto in campagna o in qualche cantina mezza allagata nella città occupata. Era più importante quel pezzo di carta ingiallito di un cannone per la resistenza al nazifascismo. C’è stata tanta gente che è morta per far circolare quel giornale, embrione di una libertà di stampa cancellata da decenni. Ci dedicarono un intero articolo della Costituzione a quella libertà negata, poi, e non fu per caso.

Durante tutto il ventennio fascista, Ferrara fu una città spaccata in due. Da un lato la borghesia urbanizzata, i proprietari terrieri e i latifondisti che aderivano al fascismo. Un fascismo che aveva a Ferrara la faccia di Starace e di Italo Balbo. Dall’altra invece i contadini, i mezzadri e i braccianti e i pochi operai che producevano la ricchezza del territorio. In mezzo la Chiesa, che contemporaneamente benediva la povertà delle campagne e sosteneva lo status quo dei latifondisti.

I socialisti, gli anarchici, i pochi comunisti erano quasi tutti operai agrari, braccianti, stritolati dai fitti e dalla decima del latifondo. Contadini che oltre a subire lo sfruttamento del latifondismo locale, per decenni furono l’obiettivo dei raid delle camicie nere. A suon di bastonate, olio di ricino, incendi e troppo spesso revolverate.

L’azione dello squadrismo agrario nelle campagne, tesa a scompaginare le organizzazioni socialiste, viene accompagnata da una riaggregazione, più o meno coatta, dei lavoratori della terra nelle organizzazioni sindacali fasciste. Massimo artefice di questo disegno Gino Baroncini, eletto segretario della federazione provinciale fascista nel giugno 1921, e sostenuto da Dino Grandi, in contrapposizione ad Arpinati, fortemente contrario alla creazione di sindacati fascisti. Lo scontro fra le due correnti del fascismo è destinato a rinfocolarsi durante la strenua opposizione che i fasci emiliano-romagnoli, sotto la guida di Baroncini e Grandi e con l’avvallo di Balbo, faranno alla applicazione del «patto di pacificazione» coi socialisti firmato da Mussolini nell’agosto 1921. Il dissidio politico porta a una temporanea emarginazione dello stesso Arpinati, favorevole alla linea di Mussolini: avendo egli rinunciato alla carica di segretario del Fascio nel giugno 1921 per dissenso verso la linea politica maggioritaria, viene addirittura escluso dal nuovo direttore nel dicembre dello stesso anno”.

[Fascismo e antifascismo nella Valle padana – Clueb editore]

A complicare il quadro una delle più antiche e fiorenti comunità ebraiche d’Italia. Una comunità perfettamente integrata nella borghesia commerciale della città e che nella fase iniziale del fascismo l’aveva in gran parte anche sostenuto per poi vedere crollare ogni residua illusione con la promulgazione delle leggi razziali. Lo capirono perfettamente, definitivamente, il 21 settembre del 1941 quando le squadre fasciste assaltarono la sinagoga in pieno centro cittadino. Il primo caso del genere in Italia.

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TRECENTOMILA EURO IN TELECAMERE

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Il comune di Milazzo (ri)apre un bando da 300.000 euro per l’istallazione di 32 telecamere di videosorveglianza. Questa notizia che potrebbe tranquillamente passare in secondo piano, ci sembra invece assolutamente indice del clima di inerzia, connivenza ed ignoranza che sembra respirarsi da sempre nelle putride aule del comune di Milazzo.

 

Iniziamo col domandarci dal dove provengano questi fondi, e quali siano le ragioni per le quali, improvvisamente, un comune in dissesto abbia liquidità per finanziare un simile progetto. E’ un bando che deriva da una delibera del Ministero degli Interni emanata nell’ambito di un programma denominato “sicurezza per lo sviluppo”. Qualcuno si potrebbe domandare cosa abbiano in comune lo sviluppo a Milazzo (?!) con l’apposizione di 32 telecamere. Inoltre, qualcuno potrebbe anche darsi delle risposte alla fatidica domanda: come vengono spesi i soldi che paghiamo in tasse? Ecco, se pensiamo che questo “progetto” è datato 2007-2013, e che al nostro comune andranno(??) nel 2014 trecentomila euro, possiamo immaginare quanto i nostri governi abbiano speso, negli ultimi sette anni, in telecamere di videosorveglianza. Per abbozzare un calcolo basta moltiplicare i soldi del nostro bando per gli abitanti che ci sono in Italia.

Ma davvero c’è un’esigenza sicurezza che ci obbliga a istallare telecamere? O meglio: è proprio necessario spendere miliardi e miliardi di euro (perché a conti fatti di questo parliamo!) per essere più sicuri? O ci sono metodi più efficaci, e l’istallazione di telecamere è solo un’opera fatta un po’ per finanziare i soliti noti, un po’ per fare campagna elettorale?

La vicenda assume i contorni della commedia, riportandola ai ristretti orizzonti del nostro comune. Viviamo in un paese (Milazzo certo, ma è così ovunque) in cui i malviventi, la mafia, si insediano da sempre nei luoghi più influenti e cruciali da cui passa la gestione del denaro pubblico. Naturalmente, anche all’interno delle amministrazioni locali. Le economie mafiose ed i poteri forti (come la RaM) condizionano lo sviluppo dei nostri territori da sempre. Non servirebbe un solo euro, ma basterebbe essere in tanti onesti e intolleranti verso mafie e prepotenze varie, per migliorare di molto le nostre vite e garantirci un diverso sviluppo. Mandare tutti via: solo una simile azione collettiva potrebbe iniziare a renderci più sicuri.

Discorsi che entrano in ovvia contraddizione con le priorità dei governanti di turno: l’unica cosa che s’ha da fare è portare avanti l’industria della “sicurezza”, le industrie belliche, istallarci porcherie come il MUOS nei nostri territori.

E come potremmo accusare le nostre povere, stupide ed avide di potere personale, amministrazioni comunali, di non capire nulla di tutto questo, di essere passive contro le mafie ed i poteri forti, di favorire programmi del cui fine ultimo non sanno assolutamente nulla?? In fondo –quando va bene- loro non sono che gli esecutori materiali di logiche che nemmeno conoscono.

Intanto, trecentomila euro dei nostri soldi, serviranno a costruire telecamere. Che, vi garantiamo, non serviranno assolutamente a nulla, e probabilmente non funzioneranno mai.

 

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Raffineria. Guai a chi ne parla.

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2 Novembre 2004. Una nube tossica fuoriesce dalla raffineria di Milazzo: è la seconda in una settimana. Le vittime sono ancora una volta soprattutto gli studenti del liceo artistico. Finiscono in pronto soccorso in un centinaio, i più gravi vengono ricoverati in ospedale.
Inizia da qui una settimana di manifestazioni e proteste che coinvolge tutta la città. Un enorme corteo spontaneo, formato dagli studenti di tutte le scuole, blocca per una mattina intera la strada che dalla silvanetta da accesso alla raffineria. Ci sono migliaia di persone, si tratta della manifestazione più grossa a Milazzo che la nostra memoria ricordi.

Ed è anche periodo di campagna elettorale. L’allora sindaco uscente Nastasi si spertica in dichiarazioni di solidarietà ai ricoverati e fa promesse di ogni genere. Lo stesso fa il suo sfidante, il carissimo Lorenzo Italiano. E così avviene l’incredibile: la lotta degli studenti ottiene un risultato pratico, una vittoria. Dopo vari cortei, blocchi del traffico, comizi, interviste, articoli della gazzetta del sud a otto colonne, l’amministrazione comunale è costretta ad istallare delle “centraline” che dovranno rilevare i valori dei gas tossici presenti nell’aria.                                                                   Non si tratta di chissà quale vittoria, la montagna ha partorito un topolino. In cambio di un centinaio di intossicati, ecco qualche centralina. Ma dopo anni di omertà assoluta delle istituzioni sul disastro ambientale che vive la nostra città, sembra comunque un piccolo passo in avanti.

Ma le centraline, appena istallate, non funzioneranno mai. E verranno rimosse nel giro di tre mesi: non se ne parlerà mai più.

Il 10 Novembre 2004, quasi come se la giustizia seguisse l’onda dell’opinione pubblica (ma và!), dal tribunale di Barcellona arriva una condanna a quattro dirigenti della raffineria. La sentenza è chiarissima: i DIRIGENTI hanno violato per tre anni, dal 1999 al 2002 (cioè semplicemente gli anni in cui si erano concentrate le indagini), le norme preposte a tutela della salubrità dell’ambiente. Vengono inflitti in totale una dozzina di anni di carcere. Non solo: il tribunale decreta anche il risarcimento dei danni a favore dei cittadini e le associazioni che si sono costituiti parte civile. Ecco un altro fatto abilmente rimosso dalla memoria collettiva.

Da quella frenetica settimana del 2004 l’intervento della politica sull’inquinamento a Milazzo è stato inesistente. Semplicemente (al di fuori della campagna elettorale di tutti, ci mancherebbe!!) non se ne è più parlato. Eppure, da allora, si sono susseguiti una sfilza enorme di studi, interventi, denunce di malati… che a raccogliere tutto si potrebbe completare una bibliografia. Persino, nel 2013, nell’ambito di una delle innumerevoli indagini che sembrano sempre finire nel nulla, sono stati sequestrati dalla Capitaneria di porto interi impianti della raffineria. Nel mare di vaccarella e levante, secondo il tribunale, erano finiti “61 mila metri cubi di idrocarburi”, mentre i dirigenti “non attivavano le procedure necessarie a evitare lo sversamento”.

Dal 2004 ad oggi, al contrario, la raffineria ha ritenuto molto utile di comprare il consenso della gente (oltre ovviamente quello incondizionato che nutre dalla maggioranza dei suoi dipendenti). Ha distribuito denaro a destra e a manca: realizzato parchi giochi, illuminato lo stadio, sponsorizzato innumerevoli manifestazioni sportive, patrocinato eventi e giornate di ogni genere e natura.

Adesso, però, siamo nuovamente in campagna elettorale. E così, il sindaco Pino e la sua giunta di assessori, lanciano qualche segnale di propaganda. Si aprono “tavoli” e  si annunciano nuovi “tavoli”. Sebbene questi attori abbiano dimostrato di infischiarsene apertamente dell’ambiente al pari dei loro predecessori, le veline di oggi-milazzo sono comunque pronte a raccogliere ogni “notizia” con un copia-incolla. Ed ecco che un problema classificato dai tribunali come “disastro ambientale” venga trattato dai tavoli della giunta Pino con la dicitura di “odori molesti”. Eh già, è solo un problema di odori molesti.

Come tutti gli annunci di qualsivoglia politico, sappiamo che anche stavolta finirà tutto in un nulla di fatto. Ma se dalla storia vogliamo trarre un insegnamento, non abbiamo molte alternative: solo lottando in prima persona, solo creando un terreno di confronto fra i cittadini al di fuori delle putride aule del comune, potremo ottenere qualche risultato. Ne va del futuro nostro e della nostra città.

 

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