Dopo Gezi Park: Don Kisot Sosyal Merkezi, centro sociale occupato

936063_1404431416461726_765915460_n-300x234

 

Davvero, dopo lo sgombero di Gezi park della fine di giugno, a Istanbul non è successo più nulla? La rivolta, la protesta, la più grande insorgenza popolare della storia della Turchia non ha avuto alcun seguito?

Con queste domande in testa torno in città ad agosto, pochi mesi dopo aver vissuto quei giorni di incredibile solidarietà e forza della società civile. Sento subito che qualcosa è cambiato. Dopo le azioni criminali della polizia, molte persone hanno terrore a scendere di nuovo in strada per gridare il proprio dissenso e la loro voglia di libertà. I numeri parlano chiaro: 7 persone uccise, 8000 ferite e più di 2000 arrestate. Allo stesso tempo, però, su un’altra parte consistente della popolazione la repressione ha prodotto l’effetto opposto, convincendo che abbandonare la lotta è terribilmente sbagliato, ma anche che per continuarla bisogna articolarla secondo altri schemi.

I luoghi cambiano. Da Piazza Taksim e Gezi park, i meeting, le assemblee, i forum vengono organizzati in quanti più quartieri possibili, nei parchi o comunque nelle aree pubbliche della città (se ne contano più di trenta).  Yoğurtçu Parkı a Kadıköy (quartiere della sponda asiatica della città) diventa il quartiere dove il forum è più frequentato e partecipato. Da questa esperienza si sono formati diversi collettivi, che praticano alternative di resistenza contro l’autoritarismo di Erdoğan.

Nelle prime settimane di settembre, tuttavia, la violenza della polizia ritorna protagonista della scena. In quei giorni di fine estate, ad Ankara esplode la protesta degli studenti della più importante università turca, attestata da sempre su posizioni antigovernative, la Middle East Tecnichal University (ODTÜ). Gli studenti protestano perché il sindaco, appartenente all’AKP (il partito al governo), vuole costruire, con l’avallo di Erdogan, una nuova autostrada che dovrebbe passare esattamente attraverso il parco dell’Università, luogo storico e uno dei pochi polmoni verdi della città. E nuovamente il dissenso si diffonde in tutte le altre principali città turche, Istanbul compresa. Stavolta è Kadikoy il centro della mobilitazione.

In quegli stessi giorni di settembre, viene organizzato un concerto sul piazzale del porto. In realtà, non si tratta soltanto di un concerto, ma di un momento di rabbia e di omaggio alle vittime uccise dalla polizia. Tra una canzone e l’altra si scandiscono gli slogan della protesta. Un enorme striscione chiede all’AKP di pagare il conto della violenza perpetrata contro i manifestanti. Alcuni amici e parenti delle vittime parlano dal palco. L’atmosfera è carica di emozione, rabbia e voglia di giustizia. Il concerto finisce, ma la gente non può, né vuole tornare a casa come se nulla fosse. Per questo  partono cortei spontanei, ma la polizia ha deciso di non concedere neanche un minuto in più e inizia ad attaccare. Con il solito infame copione: TOMA, idranti, gas lacrimogeni e urticanti lanciati ad altezza uomo. Da quel giorno, per più di una settimana, durante la notte il quartiere diventa lo scenario di nuovi e durissimi scontri con la polizia. I fumi dei gas lacrimogeni sono visibili persino dalla sponda europea. Un ragazzo muore soffocato per i gas all’interno del bar dove sta lavorando. Lo stesso giorno, un ragazzo che era entrato in coma agli inizi di luglio, dopo essere stato colpito da un lacrimogeno, se ne va per sempre. La rabbia diventa di nuovo incontrollabile!

Io vivo a Kadıköy e in quella settimana non ho avuto bisogno di fare molta strada per scendere in piazza: i carri armati (sì! sono esattamente carri armati!) hanno seminato terrore anche di fronte al portone del palazzo dove abito. La risposta del quartiere è stata all’altezza della situazione: sulla polizia piombava continuamente di tutto, dalle finestre venivano lanciate sedie e tavoli, piatti e bicchieri. Ma anche acqua, aceto, limoni e latte per i manifestanti, per supportarli e aiutarli a resistere ai gas. Ancora una volta la città dava sfoggio di tutta la sua solidarietà e forza.

Dopo una decina di giorni di scontri, la polizia ha continuato a minacciare il quartiere con la sua disgustante presenza. Ma nella mente e nel cuore delle persone niente poteva ritornare ad essere come prima: le barricate di giugno, le assemblee estive nei parchi, la guerriglia a Kadikoy, sono stati un punto di cesura, di non ritorno.

E infatti… una notte, passeggiando per il quartiere, noto un edificio abbandonato, con dei poster e con simboli dell’autogestione graffitati sopra. Ha tutte le sembianze di uno squat, di un centro sociale, come siamo abituati a intenderlo in Italia. Rimango sorpreso e incredulo… sarà un caso, mi dico. Non esistono spazi occupati in Turchia, non esistono centri sociali. Figurati con la repressione e la violenza della polizia che c’è da queste parti… posti del genere non possono assolutamente esistere qui. Dai…

1450792_1403615129876688_287669062_n

Sono tornato il giorno dopo, di mattina, per capire se avessi ragione oppure no. Che gioia sbagliarmi! Mi trovo di fronte all’ingresso: un brulicare di persone che indossano elmetti di sicurezza, guanti. Hanno fogli in mano con progetti di stanze, carrucole, scalette. Entro: i graffiti sono bellissimi. Ci sono degli stencil a grandezza d’uomo dei 7 ragazzi uccisi dalla polizia. Mi guardo intorno, purtroppo il mio turco è al di sotto della soglia minima di comunicazione, ma fortunatamente più di qualcuno parla inglese. Inizio a fare domande. Sono troppo curioso, voglio capire bene. Un centro sociale occupato a Istanbul, sto sognando.

Dico qualcosa in turco, voglio partecipare, mi danno caschetto e guanti. Detto fatto. Mi trovo con dei ragazzi turchi e curdi a preparare del cemento per alzare un muro. Il ritmo è frenetico, si scherza, mi prendono in giro per l’accento italiano. Finiamo questo muro e scendiamo giù. C’è da portare sul tetto un sacco di materiale. Si suda, si beve il tè caldo, si mangia. L’atmosfera è bellissima. La gente del quartiere passa e dice ‘kolay gelsin’ (‘che vi sia facile’, riferito al lavoro da fare). Qualcuno si ferma a dare una mano, qualcun altro porta del cibo. Si fanno foto.

Durante una pausa chiacchiero con Kadin, che mi inizia a spiegare un po’ di cose. Il posto è stato occupato agli inizi di settembre da un gruppo di persone di questo quartiere, chiamato Yeldeğirmeni , che in italiano significa ‘mulino a vento’. Il primo giorno erano solo in 12, ma con alle spalle moltissima gente, casalinghe, lavoratori, studenti, studenti in erasmus, ingegneri, insegnanti, migranti, artisti, precari, disoccupati. L’edificio era abbandonato da circa 20 anni e durante i meeting a ‘Yoğurtçu Parkı’, dopo varie discussioni sulla necessità di avere un luogo fisico nel quale portare avanti le idee nate a Gezi park, si è deciso di occuparlo. Quindi, continua a spiegare Kadin, questo spazio può essere visto come un effetto, un risultato delle proteste di giugno. Mi dice: siamo le stesse persone che erano accampate a Gezi park. Gli dico che non avevo mai sentito parlare di spazi occupati a Istanbul. Lui risponde che in Turchia, a dire il vero, in diversi quartieri come Sulukule – noto quartiere gipsy – la pratica dell’occupazione ha permesso a molte famiglie di avere almeno un tetto sotto cui dormire. Adesso, però, i piani speculativi vogliono trasformare la zona in un quartiere residenziale. Non è l’unico caso. Mi cita un altro esempio: a Ümraniye – un altro quartiere che si trova vicino Kadikoy – vennero occupate delle fabbriche negli anni ‘70, come atto di resistenza contro i progetti urbanistici del governo di allora. Si trattava di occupazioni caratterizzate da un alto grado di spontaneità.

Kadin cambia discorso e mi parla di quanti suoi compagni hanno avuto esperienze di occupazioni in Europa, in Spagna, Inghilterra, Italia e Germania. Da parte loro c’è il desiderio di creare qualcosa di nuovo, che si differenzi dal modello ‘classico’ delle occupazioni del vecchio continente. Mi dice: ‘Noi abbiamo solo risposto alle domande: Cosa possiamo fare? Di cosa abbiamo bisogno? Ma per il momento la prima necessità è finire i lavori e rendere lo spazio fruibile al massimo’.

Sono curioso di sapere come ha reagito il vicinato. Il mio amico mi spiega che c’è stata prima curiosità e poi un pizzico di diffidenza. Ma questo è comunque il quartiere dove hanno avuto luogo i meeting durante l’estate, quindi i volti degli occupanti erano già conosciuti nella zona. Con il passare dei giorni e dei lavori, i vicini hanno iniziato ad apprezzare, a capire che è un posto aperto a tutti ed è di tutti, ad aiutare, a portare dolcetti a chi lavora all’interno del centro sociale. Kadim dice che adesso, dopo 2 mesi di lavori, il vicinato è alle loro spalle, è pronto a supportarli. Anche perché i ragazzi vogliono che questo sia un punto di riferimento per il quartiere, soprattutto per i bambini e le donne.

Mentre ascolto, penso alla polizia turca, a come ha potuto reagire, a cosa può aver detto. Mi domando se le leggi turche proibiscano le occupazioni. Kadim mi spiega che sono venuti in borghese, per controllare, in diverse occasioni senza dire che erano poliziotti, altre volte dichiarandolo. Ma non sapevano cosa fare. Perché si sono trovati di fronte gente che stava pitturando, disegnando. C’erano bambini e donne. Studenti olandesi in erasmus presso un’università d’arte che abbellivano il centro. E comunque la legislazione, mi dice, è molto lacunosa in materia.

Le attività che si propongono sono tante, ovviamente quelle più legate all’organizzazione politica, ma anche arte, teatro, biblioteca, attività per i bambini, per le donne, cinema… ogni idea è bene accetta. Perché il posto è di tutti.

Non hanno relazioni dirette con i partiti e non ne vogliono avere, ma non mi nasconde che alcuni di quelli che frequentano lo spazio hanno alcuni riferimenti tra i partiti, ma questo non sembra essere un problema.

Come avevo detto in precedenza la zona dove si trova il centro sociale si chiama Yeldeğirmeni, in italiano ‘mulino a vento’. Il nome scelto per lo spazio, quasi ovviamente, è Don Kişot.

 

di Luciano Romanello

http://www.donkisot.info/#sthash.kkZDMrpk.dpuf

 

 

Amburgo ci insegna una nuova parola: gefahrengebiet.

Ad Amburgo c’è il coprifuoco.
Ad Amburgo c’è una zona rossa circondata da plotoni.
Ad Amburgo ci sono migliaia di poliziotti in piazza e ogni foglia che si muove viene identificata e portata via.
Ad Amburgo son settimane che accadon cose… che nessuno sembra volerci raccontare.

Ad Amburgo c’è un vecchio teatro che dal 1989 è stato rinominato RoteFlora, ad Amburgo c’è un bel gruppo di migranti e militanti che dopo i morti di Lampedusa ha deciso di non tornare a casa in silenzio, ad Amburgo ora si ha a che fare con la legge marziale, almeno questo è quel che sembra a guardar un po’ di immagini distrattamente, ad Amburgo c’è una zona detta “gefahrengebiet” che solo se provi ad attraversarla ti arrestano.
Lo possono fare, come se niente fosse: ti fermano perchè esisti, e lì non devi esistere. Punto.

Difficile fare un riassunto dei fatti, perché son tanti e si accavallano tra le ultime settimane di dicembre e questo inizio d’anno: dal tentativo di sgombero del Rote Flora, all’immediata criminalizzazione del movimento nato dopo l’eccidio (posso chiamarlo così) di Lampedusa che non ha mai potuto muovere un passo senza esser caricato violentemente, passando per l’ “evacuazione” dell’ Esso-Hauser, un complesso di vecchi edifici, che verranno demoliti a luglio, senza che i 70 abitanti possano proferir parola (per ora sono sistemati in alberghi e avranno assistenza statale per una casa alternativa a quella da dove son stati evacuati)… la notte di capodanno poi (e questo è uno dei motivi per cui è stata dichiarata la gefahrengebiet) ci sarebbe stato un attacco degli Autonomen contro la Davidwache, il commissariato di polizia a St.Pauli, durante il quale sarebbero rimasti feriti due poliziotti. Peccato che uno stesso comunicato della polizia parla di scontri con gli Autonomen sarebbero avvenuti a diverse centinaia di metri dal commissariato.

Insomma, Amburgo ribolle e lo Stato pensa bene di rispondere a tutto ciò con l’istaurazione di uno stato di guerra.
Nella zona che è stata dichiarata gefahrengebiet vivono migliaia di persone: possono recarsi a casa solamente a piedi, e una volta raggiunta non devono lasciarla, se non in orari prestabiliti. Se sei un giornalista ti ritirano il tesserino e te lo distruggono , se sei un fotografo… peggio. Il coprifuoco per migliaia di persone.
Per quanto? e poi dove ancora?
La gentrificazione avanza a mano armata, col grasso appena passato sugli anfibi.

In questo paese abbiamo ambasciate, consolati e molto altro battente bandiera tedesca. Dovremmo pensare ad una gefahrengebiet: Per loro!

da communianet.orgpolizei

Da Lampedusa a Milazzo, nessun confine

Lo spirito della Bicicritica è stato sempre uno spirito gioioso e la gioia è dovuta all’aggregazione, al fatto che ci si ritrova accomunati da idee e sogni e verso questi si pedala, insieme.
La Bicicritica di oggi, 4 ottobre, ha qualcosa in più: ne prenderanno parte Eleonora e Gianluca che partiti da Roma in sella ad una Vespa ripercorrono le realtà italiane in cui l’impegno sociale ha fatto la differenza. Siamo contenti di rappresentare, anche noi, massa critica di Milazzo, una di queste realtà.
La nostra realtà è fatta di persone e di pensieri e anche se nasce e cresce a Milazzo ha gli occhi aperti sul mondo e su ciò che succede attorno a noi. Per questa ragione, in occasione di questa massa critica ottobrina è necessario spostare la riflessione su quello che sta succedendo in questi giorni a Lampedusa.
I morti sono quasi 150, è già una vera e propria strage ma ancora bisogna finire di contare, all’appello mancano ancora oltre un centinaio di cadaveri. E’ l’ennesima notizia di “strage di immigrati”.
Gli stati nel frattempo sono impegnati in presunte missioni di pace qua e là ( tra le missioni italiane, il Libano, l’Afghanistan, Cipro, Kosovo) ma la vera pace inizia riconoscendo a questi “immigrati” la dignità di uomini, il diritto di scappare dalla fame e dalla guerra ed essere accolti senza l’incognita di morire o finire dentro strutture similcarcerarie come CIE e CARA.
Inoltre il belpaese, insieme a Francia e Inghilterra e tra gli stati europei che concedono meno visti, e mentre la Lega attacca in ogni modo la ministra Keyenge, a decidere di queste faccende è il ministero degli Interni.
Sembra che il problema non sia nostro e quindi non ci interessa occuparcene, i barconi che cercano soccorso vengono lasciati in mezzo al mare o respinti. Ma la realtà è che queste persone scappano da condizioni create dalle nostre politiche globali ed economiche e nella fuga devono fare i conti con le barriere marine che, se non ci fossero, sarebbe possibile evitare certe stragi.

Bicicritica è per l’abolizione dei confini sulla strada, per la circolazione in sicurezza di pedoni e ciclisti ma oggi è anche per l’abolizione dei confini marini perchè la spiaggia di Lampedusa è la più bella del mondo e deve essere porto di pace, solidarietà e accoglienza, non può essere cimitero di disperazione.bs

 

NO MUOS’ LAND: dopo il 9 agosto

NOM

La rete è stata recisa. E la passione, il diritto di una cittadinanza attiva che vuole riappropriarsi dei propri territori si è manifestato concretamente negli occhi, nelle gambe, nel sangue di oltre quattromila manifestanti ieri a Niscemi. Siamo entrati tutti ieri nella Base anche chi è rimasto fuori o non c’era fisicamente. Siamo andati a riprenderci i nostri compagni sulle antenne: Turi, Irene, Massimo, Nicola, Elvira, Sandro, Gabriella, Alessio.
Nessuna violenza, nessuna forzatura, solo la volontà di restituire dignità a un luogo meraviglioso colonizzato da chi ritiene la Sicilia la cinquantunesima stella della bandiera americana.
Ieri il popolo di Niscemi ha potuto vedere ancora più da vicino la m(u)ostrosità di un’opera contro la vita, portatrice insana di orrori come la guerra iper-super-mega tecnologica di chi premendo un pulsante compie catastrofi umane.
Ci hanno accusato di essere mafiosi, violenti, “anarco-insurrezionalisti”. A questi signori, presidenti della Regione, giornalai, forze del disordine mediatico e pragmatico (nel senso delle botte) rispondiamo che la nostra terra non accetta imposizioni dalla Nato, da chi vuole vendere solo sangue ed esportare solo merda (vedi alla voce F-35). Ripudiamo la guerra, la prepotenza, la colonizzazione militare; Vogliamo la pace, la possibilità di vivere la bellissima sughereta di Niscemi senza pensare che dall’altra parte del mondo, un nostro simile muore per volontà degli stessi yankees dalla quale non accettiamo ordini.
La manifestazione di ieri ha aperto una breccia. Non avremo bisogno dei picconi, basteranno le nostre mani a far cadere il muro. Pacificamente. Perchè è un dovere di tutti noi, persone libere, consacrare la Sicilia a luogo di bellezza, e non a luogo di morte.

Ora e sempre No Muos.

 

MILAZZO NOMUOS: La giunta prenda una posizione

images

In prossimità del 9 agosto, data della manifestazione nazionale NOMUOS, è necessario prendere atto dell’inaccettabile posizione assunta dal presidente della regione Sicilia, Rosario Crocetta e manifestare il proprio dissenso.
È fondamentale che ognuno prenda posizione su un fatto gravissimo che sta accadendo in Sicilia, ovvero l’installazione del sistema di comunicazione satellitare (MUOS) nell’area protetta della sughereta di Niscemi.
Dire no al MUOS, è dire NO alle prese in giro di chi in campagna elettorale ha cavalcato la tigre delle aspettative popolari per poi ribordarsi vigliaccamente, abbassando la testa di fronte a logiche economiche e imperialistiche. Ma è anche dire NO alla guerra, NO alle basi militari in Sicilia, NO allo stupro di aree naturali e NO all’inquinamento elettromagnetico.
In tanti si sono meravigliati della posizione di Crocetta che sebbene si fosse schierato apertamente contro il MUOS, il 25 luglio ha fatto un passo indietro “revocando la revoca” alle autorizzazioni per l’installazione del MUOS.
I comuni di Niscemi, Caltagirone e Ragusa sono stati occupati da attivisti in segno di protesta; anche altri comuni, come Regalbuto e Palermo, hanno preso posizione in favore della lotta degli attivisti e della manifestazione.
Chiediamo che anche il comune di Milazzo prenda una posizione giusta, contro il MUOS, a favore dei cittadini e del territorio. Chiediamo, inoltre, che anche a palazzo dell’Aquila venga esposta la bandiera del movimento.
Invitiamo la cittadinanza a non restare in silenzio di fronte a un problema che è di tutti, di fronte alla nostra Sicilia deturpata e violentata per far posto a strumenti di guerra, divisione e controllo sociale.
Chiediamo, quindi, alle associazioni, ai gruppi, ai collettivi e ai singoli cittadini, legati da ideali antifascisti, antisessisti e antirazzisti di sottoscrivere il presente comunicato per spingere gli organi istituzionali competenti a prendere posizione in merito al suo contenuto.

Hanno sottoscritto il comunicato:

Hari Om

FilicusArte assciazione culturale
Il Giglio
associazione Rita Atria
Libera
Compagnia del castello

adps Il Cormorano

 

Grazie anche a tutti i singoli cittadini che hanno aderito all’appello.

Per sottoscrivere il comunicato invia una e-mail a milazzorossa@canaglie.org

Era una notte di lupi feroci, l’abbiamo riempita di luci e di voci

 

foto Giuseppe Cannistrà
foto Giuseppe Cannistrà

Libertà è partecipazione, lo diceva Gaber. E libertà e partecipazione sono politica.
Bicicritica è politica. Non è la politica negli schemi di potere che due anni prima delle elezioni inizia estenuanti campagne elettorali per accaparrarsi una fetta di responsabilità sulle speculazioni che si faranno a spese dei cittadini, è una politica diversa: è politica nel senso etimologico del termine.
E’ la città che si ritrova, che si unisce e che ricomincia volontariamente a condividere entusiasmo ed energia. E’ la prova della necessità diffusa di costruire qualcosa che sia buono e di farlo insieme e in maniera diretta, senza deleghe. Bicicritica è politica perchè si riprende tutto quello che è nostro e di cui forse ci eravamo dimenticati.
Giovedì 18 luglio circa 300 biciclette, incontrollabili, hanno sfrecciato giù dal Castello e hanno assediato la città, prendendosi le strade e togliendo spazio alle auto. La linea non è unica e le motivazioni sono le più svariate; sono individuali e collettive; è la voglia di passeggiare in bicicletta; è l’impegno ambientalista e la pretesa di strade più sicure; è la pulsione anarchica di creare conflitto.
L’obiettivo, invece, è unico: un mondo migliore; città, persone e spazi liberi.
Infatti giovedì è stata liberata Piazza Roma, da sempre punto di partenza della manifestazione. Questa volta Bicicritica ha preso la piazza e se l’è tenuta, l’ha occupata per una notte di musica dando alla nostra città una gioia che le mancava da tanto tempo, ha dato vita ad una piazza sempre deserta ed è cresciuta, è cresciuta così tanto che adesso ha bisogno di più aria e spazi più grandi.

 

Collettivo Bicicritica

Torna “Biciritica Milazzese”

fhhyrtLo sviluppo decantato dalla politica è un termine obsoleto e privo di contenuti, soprattutto quando si parla di ambiente. Il motivo è semplice: l’ambiente è incompatibile con le leggi economiche in quanto, almeno dalle nostre parti, difficilmente crea un guadagno. Al contrario, lo sviluppo di ogni singolo individuo e delle comunità, è garantito dalle relazioni umane e dal rapporto di armonia con ciò che ci circonda. Il territorio in cui viviamo non deve essere considerato prodotto dell’individuo o fonte di guadagno per esso, ma bene comune.
A Milazzo ogni giorno vediamo sfilare centina di automobili lungo le vie del centro nonostante questo sia facilmente percorribile in bicicletta. L’amministrazione è immobile e sembra ignorare questa possibilità, conoscendo tuttavia i problemi di traffico e di parcheggio. Il disinteresse e la cecità che accompagnano la nostra politica danneggiano ulteriormente una città già mortificata dall’inquinamento delle industrie. Manca una pista ciclabile e in questo modo viene meno, a nostro parere, anche un autentica vocazione turistica.
Per questi motivi, invitiamo la cittadinanza a partecipare alla Bicicritica e CHIEDIAMO all’amministrazione di adottare, prima che finisca l’estate, il servizio BIKESHARING, in modo da permettere a residenti e turisti facile accesso a mezzi di trasporto non inquinanti.
Torniamo dunque a pedalare lungo le vie del centro per ribadire l’importanza della mobilità sostenibile, torniamo a parlare di beni comuni, torniamo a tessere relazioni con il prossimo e a vivere in armonia con la nostra terra…
…Appuntamento domenica 30 giugno alle ore 18.30 a piazza Roma.

 

Biciritica Milazzese

Il reato non è occupare una casa ma essere costretti a farlo

casaeundiritto

In data 4 maggio i giornali locali comunicano la notizia di 2 arrestati: i soggetti in questione, al momento agli arresti domiciliari, sono due giovani tra i venti e i trent’anni accusati dell’occupazione abusiva di una casa popolare, scoperti e denunciati dalla proprietaria.

La vicenda è definita “assurda”, in realtà di assurdo non c’è nulla.

Nel dibattito politico quotidiano c’è un tema che non viene trattato o addirittura celato; un tema che sta alla base delle questioni politiche e sociali di oggi, che rappresenta un diritto fondamentale di ogni individuo specie se cittadino di uno stato che avrebbe il compito di tutelarlo: questo è il diritto di vivere e di abitare.

Negli ultimi due anni gli sfratti sono aumentati del 10 % ed è cresciuto esponenzialmente il numero di famiglie che non può più permettersi di pagare un affitto. Questi elementi sono la spia di un forte disagio sociale che non permette di meravigliarsi quando si sente parlare di case occupate.

Crediamo di vivere in un’isola felice che è la nostra cittadina dove la crisi economica non piange per strada e quindi siamo portati a credere che non ci sia. Sbagliato. Le case occupate a Milazzo sono molte e dentro ci stanno famiglie in gravi condizioni di indigenza.

La polizia arriva e i criminali sono arrestati: le forze dell’ordine hanno reso giustizia all’ingiustizia di non potere pagare un affitto.

Il problema del’abitativo, oggi, coinvolge le più larghe fasce della popolazione, dai giovani che vogliono fare una vita in comune e che hanno grandi difficoltà a trovare lavoro, agli anziani con pensioni troppo basse per permettersi gli affitti, agli immigrati e clandestini. Questo perchè la casa non è ancora riconosciuta come un diritto.

Il reato non è occupare una casa ma essere costretti a farlo.

In Italia è cresciuto notevolmente il numero di abitazioni occupate, nelle grandi città è diventata una pratica abituale: è su questo che bisognerebbe informarsi prima di scrivere titoli di giornale che mettono l’etichetta di criminale a chi fa fronte da sé ad esigenze che dovrebbe essere lo stato a garantire. Nell’ambito strettamente locale sono innumerevoli le case sfitte e altrettante persone sono senza casa o non possono permettersela, allora se la casa non va a chi è senza, chi è senza va alla casa.

Bici senza confini

La Bicicritica è una manifestazione che si propone di portare avanti un nuovo modello di spostamento incentrato sulle persone e non sulle auto, soprattutto nelle città a misura di bicicletta.
Transitare sulla strada è diventato molto pericoloso per i ciclisti: le automobili, fin ora padrone indiscusse della carreggiata, attraverso un rapporto di forza mantengono la supremazia ledendo l’incolumità di chi si muove in bici. Vogliamo ribaltare questo rapporto di forza.
Portare avanti un’idea di mobilità sostenibile, in un territorio già martoriato dalle industrie, è fondamentale per preservare l’ambiente dallo smog. Pedalare fa bene alla salute, permette di risparmiare tempo nella ricerca del parcheggio, ci sottrae allo stress del traffico cittadino conferendo il buonumore e facilitando la socialità tra le persone.
Quando sono iniziati i lavori per la pista ciclabile che avrebbe dovuto collegare il Tono di Milazzo con Calderà ci siamo illusi che stessimo per intraprendere un percorso di civiltà. Le aspettative sono state tempestivamente e prevedibilmente deluse: poco tempo dopo i lavori sono stati interrotti a causa di sub-appalti mafiosi. Oltre il danno la beffa: quello che ci è rimasto è una riviera di ponente devastata da lavori incompleti, e non più percorribile nemmeno a piedi.
Le strade sono dei pedoni e delle biciclette, di chi si muove in maniera non invasiva e anche in questo,ancora una volta, capiamo di non avere nessuna tutela da parte delle amministrazione ma solo disinteresse.
Le biciclette però sono sempre di più ed è sempre più forte l’esigenza di poter pedalare in libertà, a ponente e in ogni strada. Per questo Bicicritica non si ferma. E’ ancora più critica e abbatte i confini cittadini incontrando i ciclisti di Barcellona per espropriare le strade del centro alle automobili e per riprendersi il lungomare che doveva essere destinato alle biciclette e che è stato sottratto ad un’occasione di civiltà a causa della cattiva politica e della pessima gestione delle opere pubbliche.

La pedalata partirà contemporaneamente da piazza Roma a Milazzo e da piazza Alfano a Barcellona, dopo un giro per le vie del centro si percorrerà il lungomare fino al ponte di Calderà. Dopo un aperitivo con diffusione musicale al tramonto, si ripartirà per tornare alla base. Il concentramento è previsto per le 16,30.
La partenza da Calderà è previstagrandec alle19,30.