Solidarietà al Pinelli

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Stamattina le forze dell’ordine con un’operazione premeditata che ha l’obiettivo di disgregare l’aggregazione, il non-allineato, il non-conforme, hanno applicato un ordine di sgombero diramato dalla magistratura. Con una sola azione: la non legittimazione di chi ha ridato un’anima a un luogo abbandonato, l’ex casa del Portuale. Da Milazzo siamo vicini e solidali con i ragazzi del Teatro Pinelli che con tanta dedizione, da quasi un anno avevano creato in un luogo fatiscente, una realtà dinamica, un laboratorio di idee, un crocevia di incontri e di scambi umani. Evidentemente tutto questo dà fastidio all’ordine costituito che si ricorda dei propri beni, solo quando vengono fatti rivivere senza logiche speculative. Per ripartire e non abbatterci, oggi saremo presenti all’ assemblea cittadina alle ore 17 al Cantiere dell’incanto – Casa del Con , via Maddalena n 8 a Messina.

 

Riparte il cinema per bambini!

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Ricomincia il cineforum per bambini! Cinque domeniche cinematografiche dedicate ai cartoni animati per bambini ma anche per chi li accompagna, per chi si sente ancora giovane, per chi vorrebbe tornare piccolo, per chi non è mai cresciuto.
Cinema per bambini:

19gen: La carica dei 101
02feb: The gnomo mobile
16feb: La fattoria degli animali
02mar: Madagascar
16mar: Le avventure di Zarafa

Le proiezioni saranno accompagnate da spuntini biologici fatti in casa e popcorn!

https://www.facebook.com/events/198636407007090/?fref=ts

Dopo Gezi Park: Don Kisot Sosyal Merkezi, centro sociale occupato

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Davvero, dopo lo sgombero di Gezi park della fine di giugno, a Istanbul non è successo più nulla? La rivolta, la protesta, la più grande insorgenza popolare della storia della Turchia non ha avuto alcun seguito?

Con queste domande in testa torno in città ad agosto, pochi mesi dopo aver vissuto quei giorni di incredibile solidarietà e forza della società civile. Sento subito che qualcosa è cambiato. Dopo le azioni criminali della polizia, molte persone hanno terrore a scendere di nuovo in strada per gridare il proprio dissenso e la loro voglia di libertà. I numeri parlano chiaro: 7 persone uccise, 8000 ferite e più di 2000 arrestate. Allo stesso tempo, però, su un’altra parte consistente della popolazione la repressione ha prodotto l’effetto opposto, convincendo che abbandonare la lotta è terribilmente sbagliato, ma anche che per continuarla bisogna articolarla secondo altri schemi.

I luoghi cambiano. Da Piazza Taksim e Gezi park, i meeting, le assemblee, i forum vengono organizzati in quanti più quartieri possibili, nei parchi o comunque nelle aree pubbliche della città (se ne contano più di trenta).  Yoğurtçu Parkı a Kadıköy (quartiere della sponda asiatica della città) diventa il quartiere dove il forum è più frequentato e partecipato. Da questa esperienza si sono formati diversi collettivi, che praticano alternative di resistenza contro l’autoritarismo di Erdoğan.

Nelle prime settimane di settembre, tuttavia, la violenza della polizia ritorna protagonista della scena. In quei giorni di fine estate, ad Ankara esplode la protesta degli studenti della più importante università turca, attestata da sempre su posizioni antigovernative, la Middle East Tecnichal University (ODTÜ). Gli studenti protestano perché il sindaco, appartenente all’AKP (il partito al governo), vuole costruire, con l’avallo di Erdogan, una nuova autostrada che dovrebbe passare esattamente attraverso il parco dell’Università, luogo storico e uno dei pochi polmoni verdi della città. E nuovamente il dissenso si diffonde in tutte le altre principali città turche, Istanbul compresa. Stavolta è Kadikoy il centro della mobilitazione.

In quegli stessi giorni di settembre, viene organizzato un concerto sul piazzale del porto. In realtà, non si tratta soltanto di un concerto, ma di un momento di rabbia e di omaggio alle vittime uccise dalla polizia. Tra una canzone e l’altra si scandiscono gli slogan della protesta. Un enorme striscione chiede all’AKP di pagare il conto della violenza perpetrata contro i manifestanti. Alcuni amici e parenti delle vittime parlano dal palco. L’atmosfera è carica di emozione, rabbia e voglia di giustizia. Il concerto finisce, ma la gente non può, né vuole tornare a casa come se nulla fosse. Per questo  partono cortei spontanei, ma la polizia ha deciso di non concedere neanche un minuto in più e inizia ad attaccare. Con il solito infame copione: TOMA, idranti, gas lacrimogeni e urticanti lanciati ad altezza uomo. Da quel giorno, per più di una settimana, durante la notte il quartiere diventa lo scenario di nuovi e durissimi scontri con la polizia. I fumi dei gas lacrimogeni sono visibili persino dalla sponda europea. Un ragazzo muore soffocato per i gas all’interno del bar dove sta lavorando. Lo stesso giorno, un ragazzo che era entrato in coma agli inizi di luglio, dopo essere stato colpito da un lacrimogeno, se ne va per sempre. La rabbia diventa di nuovo incontrollabile!

Io vivo a Kadıköy e in quella settimana non ho avuto bisogno di fare molta strada per scendere in piazza: i carri armati (sì! sono esattamente carri armati!) hanno seminato terrore anche di fronte al portone del palazzo dove abito. La risposta del quartiere è stata all’altezza della situazione: sulla polizia piombava continuamente di tutto, dalle finestre venivano lanciate sedie e tavoli, piatti e bicchieri. Ma anche acqua, aceto, limoni e latte per i manifestanti, per supportarli e aiutarli a resistere ai gas. Ancora una volta la città dava sfoggio di tutta la sua solidarietà e forza.

Dopo una decina di giorni di scontri, la polizia ha continuato a minacciare il quartiere con la sua disgustante presenza. Ma nella mente e nel cuore delle persone niente poteva ritornare ad essere come prima: le barricate di giugno, le assemblee estive nei parchi, la guerriglia a Kadikoy, sono stati un punto di cesura, di non ritorno.

E infatti… una notte, passeggiando per il quartiere, noto un edificio abbandonato, con dei poster e con simboli dell’autogestione graffitati sopra. Ha tutte le sembianze di uno squat, di un centro sociale, come siamo abituati a intenderlo in Italia. Rimango sorpreso e incredulo… sarà un caso, mi dico. Non esistono spazi occupati in Turchia, non esistono centri sociali. Figurati con la repressione e la violenza della polizia che c’è da queste parti… posti del genere non possono assolutamente esistere qui. Dai…

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Sono tornato il giorno dopo, di mattina, per capire se avessi ragione oppure no. Che gioia sbagliarmi! Mi trovo di fronte all’ingresso: un brulicare di persone che indossano elmetti di sicurezza, guanti. Hanno fogli in mano con progetti di stanze, carrucole, scalette. Entro: i graffiti sono bellissimi. Ci sono degli stencil a grandezza d’uomo dei 7 ragazzi uccisi dalla polizia. Mi guardo intorno, purtroppo il mio turco è al di sotto della soglia minima di comunicazione, ma fortunatamente più di qualcuno parla inglese. Inizio a fare domande. Sono troppo curioso, voglio capire bene. Un centro sociale occupato a Istanbul, sto sognando.

Dico qualcosa in turco, voglio partecipare, mi danno caschetto e guanti. Detto fatto. Mi trovo con dei ragazzi turchi e curdi a preparare del cemento per alzare un muro. Il ritmo è frenetico, si scherza, mi prendono in giro per l’accento italiano. Finiamo questo muro e scendiamo giù. C’è da portare sul tetto un sacco di materiale. Si suda, si beve il tè caldo, si mangia. L’atmosfera è bellissima. La gente del quartiere passa e dice ‘kolay gelsin’ (‘che vi sia facile’, riferito al lavoro da fare). Qualcuno si ferma a dare una mano, qualcun altro porta del cibo. Si fanno foto.

Durante una pausa chiacchiero con Kadin, che mi inizia a spiegare un po’ di cose. Il posto è stato occupato agli inizi di settembre da un gruppo di persone di questo quartiere, chiamato Yeldeğirmeni , che in italiano significa ‘mulino a vento’. Il primo giorno erano solo in 12, ma con alle spalle moltissima gente, casalinghe, lavoratori, studenti, studenti in erasmus, ingegneri, insegnanti, migranti, artisti, precari, disoccupati. L’edificio era abbandonato da circa 20 anni e durante i meeting a ‘Yoğurtçu Parkı’, dopo varie discussioni sulla necessità di avere un luogo fisico nel quale portare avanti le idee nate a Gezi park, si è deciso di occuparlo. Quindi, continua a spiegare Kadin, questo spazio può essere visto come un effetto, un risultato delle proteste di giugno. Mi dice: siamo le stesse persone che erano accampate a Gezi park. Gli dico che non avevo mai sentito parlare di spazi occupati a Istanbul. Lui risponde che in Turchia, a dire il vero, in diversi quartieri come Sulukule – noto quartiere gipsy – la pratica dell’occupazione ha permesso a molte famiglie di avere almeno un tetto sotto cui dormire. Adesso, però, i piani speculativi vogliono trasformare la zona in un quartiere residenziale. Non è l’unico caso. Mi cita un altro esempio: a Ümraniye – un altro quartiere che si trova vicino Kadikoy – vennero occupate delle fabbriche negli anni ‘70, come atto di resistenza contro i progetti urbanistici del governo di allora. Si trattava di occupazioni caratterizzate da un alto grado di spontaneità.

Kadin cambia discorso e mi parla di quanti suoi compagni hanno avuto esperienze di occupazioni in Europa, in Spagna, Inghilterra, Italia e Germania. Da parte loro c’è il desiderio di creare qualcosa di nuovo, che si differenzi dal modello ‘classico’ delle occupazioni del vecchio continente. Mi dice: ‘Noi abbiamo solo risposto alle domande: Cosa possiamo fare? Di cosa abbiamo bisogno? Ma per il momento la prima necessità è finire i lavori e rendere lo spazio fruibile al massimo’.

Sono curioso di sapere come ha reagito il vicinato. Il mio amico mi spiega che c’è stata prima curiosità e poi un pizzico di diffidenza. Ma questo è comunque il quartiere dove hanno avuto luogo i meeting durante l’estate, quindi i volti degli occupanti erano già conosciuti nella zona. Con il passare dei giorni e dei lavori, i vicini hanno iniziato ad apprezzare, a capire che è un posto aperto a tutti ed è di tutti, ad aiutare, a portare dolcetti a chi lavora all’interno del centro sociale. Kadim dice che adesso, dopo 2 mesi di lavori, il vicinato è alle loro spalle, è pronto a supportarli. Anche perché i ragazzi vogliono che questo sia un punto di riferimento per il quartiere, soprattutto per i bambini e le donne.

Mentre ascolto, penso alla polizia turca, a come ha potuto reagire, a cosa può aver detto. Mi domando se le leggi turche proibiscano le occupazioni. Kadim mi spiega che sono venuti in borghese, per controllare, in diverse occasioni senza dire che erano poliziotti, altre volte dichiarandolo. Ma non sapevano cosa fare. Perché si sono trovati di fronte gente che stava pitturando, disegnando. C’erano bambini e donne. Studenti olandesi in erasmus presso un’università d’arte che abbellivano il centro. E comunque la legislazione, mi dice, è molto lacunosa in materia.

Le attività che si propongono sono tante, ovviamente quelle più legate all’organizzazione politica, ma anche arte, teatro, biblioteca, attività per i bambini, per le donne, cinema… ogni idea è bene accetta. Perché il posto è di tutti.

Non hanno relazioni dirette con i partiti e non ne vogliono avere, ma non mi nasconde che alcuni di quelli che frequentano lo spazio hanno alcuni riferimenti tra i partiti, ma questo non sembra essere un problema.

Come avevo detto in precedenza la zona dove si trova il centro sociale si chiama Yeldeğirmeni, in italiano ‘mulino a vento’. Il nome scelto per lo spazio, quasi ovviamente, è Don Kişot.

 

di Luciano Romanello

http://www.donkisot.info/#sthash.kkZDMrpk.dpuf

 

 

Amburgo ci insegna una nuova parola: gefahrengebiet.

Ad Amburgo c’è il coprifuoco.
Ad Amburgo c’è una zona rossa circondata da plotoni.
Ad Amburgo ci sono migliaia di poliziotti in piazza e ogni foglia che si muove viene identificata e portata via.
Ad Amburgo son settimane che accadon cose… che nessuno sembra volerci raccontare.

Ad Amburgo c’è un vecchio teatro che dal 1989 è stato rinominato RoteFlora, ad Amburgo c’è un bel gruppo di migranti e militanti che dopo i morti di Lampedusa ha deciso di non tornare a casa in silenzio, ad Amburgo ora si ha a che fare con la legge marziale, almeno questo è quel che sembra a guardar un po’ di immagini distrattamente, ad Amburgo c’è una zona detta “gefahrengebiet” che solo se provi ad attraversarla ti arrestano.
Lo possono fare, come se niente fosse: ti fermano perchè esisti, e lì non devi esistere. Punto.

Difficile fare un riassunto dei fatti, perché son tanti e si accavallano tra le ultime settimane di dicembre e questo inizio d’anno: dal tentativo di sgombero del Rote Flora, all’immediata criminalizzazione del movimento nato dopo l’eccidio (posso chiamarlo così) di Lampedusa che non ha mai potuto muovere un passo senza esser caricato violentemente, passando per l’ “evacuazione” dell’ Esso-Hauser, un complesso di vecchi edifici, che verranno demoliti a luglio, senza che i 70 abitanti possano proferir parola (per ora sono sistemati in alberghi e avranno assistenza statale per una casa alternativa a quella da dove son stati evacuati)… la notte di capodanno poi (e questo è uno dei motivi per cui è stata dichiarata la gefahrengebiet) ci sarebbe stato un attacco degli Autonomen contro la Davidwache, il commissariato di polizia a St.Pauli, durante il quale sarebbero rimasti feriti due poliziotti. Peccato che uno stesso comunicato della polizia parla di scontri con gli Autonomen sarebbero avvenuti a diverse centinaia di metri dal commissariato.

Insomma, Amburgo ribolle e lo Stato pensa bene di rispondere a tutto ciò con l’istaurazione di uno stato di guerra.
Nella zona che è stata dichiarata gefahrengebiet vivono migliaia di persone: possono recarsi a casa solamente a piedi, e una volta raggiunta non devono lasciarla, se non in orari prestabiliti. Se sei un giornalista ti ritirano il tesserino e te lo distruggono , se sei un fotografo… peggio. Il coprifuoco per migliaia di persone.
Per quanto? e poi dove ancora?
La gentrificazione avanza a mano armata, col grasso appena passato sugli anfibi.

In questo paese abbiamo ambasciate, consolati e molto altro battente bandiera tedesca. Dovremmo pensare ad una gefahrengebiet: Per loro!

da communianet.orgpolizei

Da Lampedusa a Milazzo, nessun confine

Lo spirito della Bicicritica è stato sempre uno spirito gioioso e la gioia è dovuta all’aggregazione, al fatto che ci si ritrova accomunati da idee e sogni e verso questi si pedala, insieme.
La Bicicritica di oggi, 4 ottobre, ha qualcosa in più: ne prenderanno parte Eleonora e Gianluca che partiti da Roma in sella ad una Vespa ripercorrono le realtà italiane in cui l’impegno sociale ha fatto la differenza. Siamo contenti di rappresentare, anche noi, massa critica di Milazzo, una di queste realtà.
La nostra realtà è fatta di persone e di pensieri e anche se nasce e cresce a Milazzo ha gli occhi aperti sul mondo e su ciò che succede attorno a noi. Per questa ragione, in occasione di questa massa critica ottobrina è necessario spostare la riflessione su quello che sta succedendo in questi giorni a Lampedusa.
I morti sono quasi 150, è già una vera e propria strage ma ancora bisogna finire di contare, all’appello mancano ancora oltre un centinaio di cadaveri. E’ l’ennesima notizia di “strage di immigrati”.
Gli stati nel frattempo sono impegnati in presunte missioni di pace qua e là ( tra le missioni italiane, il Libano, l’Afghanistan, Cipro, Kosovo) ma la vera pace inizia riconoscendo a questi “immigrati” la dignità di uomini, il diritto di scappare dalla fame e dalla guerra ed essere accolti senza l’incognita di morire o finire dentro strutture similcarcerarie come CIE e CARA.
Inoltre il belpaese, insieme a Francia e Inghilterra e tra gli stati europei che concedono meno visti, e mentre la Lega attacca in ogni modo la ministra Keyenge, a decidere di queste faccende è il ministero degli Interni.
Sembra che il problema non sia nostro e quindi non ci interessa occuparcene, i barconi che cercano soccorso vengono lasciati in mezzo al mare o respinti. Ma la realtà è che queste persone scappano da condizioni create dalle nostre politiche globali ed economiche e nella fuga devono fare i conti con le barriere marine che, se non ci fossero, sarebbe possibile evitare certe stragi.

Bicicritica è per l’abolizione dei confini sulla strada, per la circolazione in sicurezza di pedoni e ciclisti ma oggi è anche per l’abolizione dei confini marini perchè la spiaggia di Lampedusa è la più bella del mondo e deve essere porto di pace, solidarietà e accoglienza, non può essere cimitero di disperazione.bs

 

Torna “Biciritica Milazzese”

fhhyrtLo sviluppo decantato dalla politica è un termine obsoleto e privo di contenuti, soprattutto quando si parla di ambiente. Il motivo è semplice: l’ambiente è incompatibile con le leggi economiche in quanto, almeno dalle nostre parti, difficilmente crea un guadagno. Al contrario, lo sviluppo di ogni singolo individuo e delle comunità, è garantito dalle relazioni umane e dal rapporto di armonia con ciò che ci circonda. Il territorio in cui viviamo non deve essere considerato prodotto dell’individuo o fonte di guadagno per esso, ma bene comune.
A Milazzo ogni giorno vediamo sfilare centina di automobili lungo le vie del centro nonostante questo sia facilmente percorribile in bicicletta. L’amministrazione è immobile e sembra ignorare questa possibilità, conoscendo tuttavia i problemi di traffico e di parcheggio. Il disinteresse e la cecità che accompagnano la nostra politica danneggiano ulteriormente una città già mortificata dall’inquinamento delle industrie. Manca una pista ciclabile e in questo modo viene meno, a nostro parere, anche un autentica vocazione turistica.
Per questi motivi, invitiamo la cittadinanza a partecipare alla Bicicritica e CHIEDIAMO all’amministrazione di adottare, prima che finisca l’estate, il servizio BIKESHARING, in modo da permettere a residenti e turisti facile accesso a mezzi di trasporto non inquinanti.
Torniamo dunque a pedalare lungo le vie del centro per ribadire l’importanza della mobilità sostenibile, torniamo a parlare di beni comuni, torniamo a tessere relazioni con il prossimo e a vivere in armonia con la nostra terra…
…Appuntamento domenica 30 giugno alle ore 18.30 a piazza Roma.

 

Biciritica Milazzese

Milazzo è una città antifascista

Sabato 13 aprile, passeggiando per la via Giacomo Medici, potreste imbattervi in un gruppetto di fascistelli 2.0 che vi omaggiano del loro foglio informativo dal titolo “InformAzione”. Potete farne ciò che volete: strapparlo, evitare la mano che ve lo porge, o altrimenti fare entrambe le cose e ribadire a questi ragazzetti che MILAZZO E’ UNA CITTà ANTIFASCISTA.
Non lasciate spazio, nei giornali , nei luoghi pubblici, a chi vuole mischiarsi con un concetto di Sociale che niente ha a che vedere con il significato etimologico del termine. Questi signorini sono foraggiati da personaggi che hanno fatto e fanno il male della nostra città, della nostra regione, del nostro paese: Lorenzo Italiano, Domenico Nania, Saro Pergolizzi, Nello Musumeci,Santi Formica e Peppino Buzzanca, Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, giusto per fare qualche nome. Tutta gente legata a una rivergination antifascista solo a chiacchiere e asservita a biechi interessi di poltrona. Il fascismo non è finito: è continuato in questi anni nelle aule istituzionali mascherato da quell’aura repubblicana che mai gli è appartenuta e mai gli apparterrà.
Diffidate da chi si fa tenere a guinzaglio da fanatismi stupidi ed estemporanei.