di Zoe
È un giorno di primavera e il sole inonda i cortili aperti di un vecchio monastero bianco a picco sulla costiera di Genova. Sono arrivati da tutto il mondo nella notte, manager businessmen i nuovi imprenditori della scienza per decidere il futuro del sapere in questo elegante paese anticamente gioviale. Le posture sono sicure e autorevoli, non vi è titubanza nei gesti o nelle parole. Le giacche grigio brillante si riflettono sui volti appena abbronzati e gli occhi blu di fascinosi uomini dalle movenze discrete risuonano nei passi a un tempo misurati e pesanti. Il potere contemporaneo ha una sua particolare fattura. Non esiste più l’autorità, come soleva esistere un tempo. L’autorità è fatta di cordialità leggera e sottile ironia. Ci sono dieci tavoli rotondi inondati di luce. Sembra una antica residenza reale o un pranzo di gala, chissà se anche in Francia tenevano pranzi così eleganti prima della rivoluzione. Sono in buona parte scienziati duri. Vengono dalle nuove tecnologie o dalle scienze ambientali, così facoltose oggi per chi vuole bonificare il mondo – beneficiate dalle stesse compagnie petrolifere che il mondo l’hanno macerato. Qui sostenibilità è la parola chiave. Chi lo sa, forse un tempo nei regimi coloniali fratellanza era la parola chiave. Gli accademici hanno una strana qualità sopraffina. Capiscono subito chi detiene il potere. Sono come cani segugi, annusano ogni angolo di strada e di sterco e scoprono infine dove stanno i soldi. Sembra che esista una specie di regola non scritta in queste circostanze. Il potere non parla molto. Annuisce oppure smentisce. Tutti sanno dove risiede semplicemente perché tutti gli sguardi tornano a lui – maschile singolare. Il potere indica qual è la verità.
Questa per loro è una breve pausa. Riprenderanno la riunione tra quaranta minuti. Ad intrattenerli come coreografici ospiti siamo arrivati in cinque. Alcuni di noi hanno fatto tre ore di viaggio per giungere al cerimoniale. Non tutti sembrano a disagio. Molti anzi sembrano starci comodi in queste corti. Magari una persona più cinica oppure più sveglia di me scriverebbe che la maggior parte di loro vuole starci e basta. Gli imprenditori della conoscenza arrivano da ogni parte del mondo. Giappone Stati Uniti Israele Emirati Arabi Cina e Corea. Si fermano per venti-trenta ore, giusto il tempo di decidere il nostro futuro e di andarsene. E’ questa la governance globale. Aerei privati arrivano e ripartono prima che tu te ne accorga. È una specie di prassi, di questi tempi. Lo smantellamento dell’istruzione pubblica in Italia è una straordinaria opportunità di investimento per gli imprenditori della scienza. Il sapere è denaro e il denaro è sapere. È questa l’equazione dei nostri tempi. Così in quelle sale si decide in quali valori dovranno credere le generazioni future. C’è una sorta di paternalismo dolce nell’aria: cosa vogliamo far sapere a questi giovani. Che cosa vogliamo che imparino e che cosa vogliamo oscurare dalla loro coscienza. Di fatto, il tutto ha l’aria di una specie di esperimento antropologico. Un pò come l’esperimento che fecero alla Scuola di Chicago laddove la gang di economisti più famosa al mondo selezionava in Cile i migliori talenti per poi formarli all’arte sottile del potere e della condiscendenza – la condiscendenza attiva alla dittatura di Pinochet – anche qui bisogna selezionare i migliori. Selezionarli e poi plasmarli a ciò che vogliamo che essi diventino.
Io sono arrivata in ritardo. Non riesco mai ad arrivare puntuale nei luoghi in cui non voglio andare. I posti sono assegnati. Nel mio tavolo c’è un tizio dagli occhi blu ed altre persone. Mi siedo. Scopro in fretta che tutti hanno una teoria sul mondo. L’Italia, per esempio, questa terra triviale stuprata dalla corruzione di giacche eleganti non è in crisi. Fuori non ci sono disoccupati e precari, soggettività tanto esaurite che prima o poi faranno saltare in aria Montecitorio. Non esistono, e se esistono non è quello il luogo in cui discuterne. I fatti, l’esperienza di chi sta ai margini del grande capitale – le frustrazioni di chi è incapace di vivere a questo mondo – non sono di nostro interesse. L’istruzione privata si dissocia da tutto ciò. Non ci dobbiamo fare carico di tutti i problemi del mondo e chi vuole lagnarsi può farlo altrove – qui stiamo costruendo un mondo nuovo. Qui stiamo costruendo un mondo efficiente, un mondo capace di riconoscere il merito e di premiarlo, un mondo eccellente in cui il primo passo per risolvere i problemi è dimenticarli – ricacciarli negli zoo umani di Goya o nelle banlieu parigine dove appartengono.
Parla così il potere contemporaneo. Il fascino discreto del potere si esprime per segregazione abitativa e linguistica. Il punto è che ciò che non porta capitale non esiste. Le potenzialità sociali del sapere? Oh please. Qui importa esclusivamente la sua capitalizzazione. “Stanno chiudendo le università perchè sai, qui sono spuntate come funghi negli ultimi anni”, dice una che in Italia manca da trent’anni. “Ce ne sono troppe”. “Poi in Italia mancano i ranking. Bisogna creare gerarchie, gli atenei devono essere differenziati in base al valore”. Valutazione qualità merito, ecco le parole chiave, le persone vanno selezionate scrupolosamente, ti ricordi Salò di Pasolini: bisogna capire chi ha il buco del culo più fitting. Anche la segretaria ha una propria teoria. “Prima di tutto il merito e gli altri fuori”. Evidentemente ha capito le parole magiche per essere presa sul serio: bisogna imparare a ruminare gli stessi concetti masticati in un dibattito politico senza dignità e poi bisogna essere disposti ad applicarli contro gli altri.
Nietzsche aveva capito tutto dell’eccellenza. È l’unico che l’ha descritta per ciò che è. Aspirare ad eccellere significa desiderare che “il prossimo, esteriormente o interiormente, soffra di noi”, scriveva. “L’aspirazione ad eccellere è l’aspirazione a soggiogare il prossimo”, quella “lunga serie di gradi di sopraffazione segretamente bramata”, che non a caso è “quasi simile a una storia della cultura” (Aurora). Smorfie, raffinatezza e “morbosa idealità”: sembrava parlasse di noi.
Dall’esterno quel palazzo sembrava una struttura principesca. Era la prima giornata di primavera e finalmente potevamo dismettere i cappotti. Smorfie, raffinatezza e “morbosa idealità”: c’era tutto. Era un pranzo fiabesco ma io mi sentivo percorrere la pelle da insetti e scarafaggi – era quella la sensazione – un senso costante di minaccia come se ogni mio gesto potesse essere il pretesto per un’esecuzione. Tsitsi Dangarembga in Condizioni nervose raccontava l’esperienza di sedere a tavola nell’epoca coloniale. Il colonialismo non è solo espropriazione. Il colonialista prescrive la verità. Tsitsi Dangarembga doveva adattare la sua condotta agli standard vittoriani. Nello Zimbabwe inglese doveva imparare a usare la forchetta e a stare seduta diritta. Gli inglesi osservano. Gli inglesi decidono ciò che è giusto e sbagliato. È un’opportunità, che ti viene data, sedere qui a tavola con noi. Il potere va corteggiato, il potere va riverito. Mica vorrai lamentarti, dell’opportunità che ti sta dando il potere?
C’era quest’uomo al mio tavolo, con gli occhi celesti. Era a lui che ritornavano gli sguardi e i silenzi quasi in attesa di approvazione. Mi faceva domande precise con fare in apparenza cortese. Dietro ai suoi sguardi e alle sue domande però non c’era simpatia. C’era intimidazione. Quell’intimidazione lieve che dice, hai capito chi comanda? La capacità di cattura del potere è direttamente proporzionale alla disperazione che crea. Come fate a chiederci di dimenticarla, la vostra capacità di investire sulle disgrazie. Come fate a chiederci di dimenticarla, la vostra condotta di raffinati cannibali.
C’è una cosa che non ho mai capito in quelle circostanze. Non ho capito come fanno gli altri a trovarvisi a loro agio. Io non riesco a respirare. Tutto il mio corpo diventa rigido e il fatto stesso di versare l’acqua sul bicchiere mi sembra un’esposizione eccessiva – cerco il momento in cui gli occhi si distraggono per evitare che qualunque gesto li riporti su di me. Nel tempo ho cominciato a capire che cos’è, la mia. È rabbia. Rabbia. Quel confine sottile tra la docilità e l’ira, perchè non riesco a perdonare questi dittatori passivi. Perchè il loro charm aggressivo aggiunge alla violenza l’ipocrisia. Perchè se davvero volete investire sulle disgrazie abbiate almeno il coraggio di presentarvi come avvoltoi – non come benefattori.
“Questo no, lo studiano gli attivisti”, dice a una donna alzatasi per consultarlo. “Nessun attivista”. Eravamo in quattro in quel momento al tavolo. Il tema era l’attivazione di un nuovo corso di laurea. Il no come al solito era distratto e fermo. Discorso chiuso. “Hai assaggiato il dessert che buono”, chiede volgendosi alla commensale alla sua destra. “Nè saperi critici né attivisti”. Punto.
Il tavolo si ferma. “Ah ho sentito tanto parlare di te”, mi dice qualcuno. Non capivo la relazione tra questa frase e la precedente. O meglio – avevo capito bene? “Attivisti no”. “No ma gli attivisti in qualche fase storica sono stati necessari”, risponde qualcuno all’uomo con gli occhi celesti. Chiediglielo a Rosa Parks a Mandela o ai migranti di Rosarno. Chiediglielo alla badante che gli pulisce il culo a tuo padre perchè i fottuti attivisti sono necessari, pensavo. “Un tempo servivano”, continua. “Oggi c’è Zoe”, dice indicando me. Lo dice seria, senza ironia. Mi sentivo come nelle riserve indiane: ne abbiamo un esemplare. Ora? Possiamo vivisezionarlo, smembrarlo oppure mandarlo direttamente in laboratorio. Che preferite farne? Non capivo. Secondo me non capivano neanche loro, che ci dovevo fare lì. Gli sguardi cercano un’uscita da quella specie di gaffe o impudente rivelazione della verità. “Attivisti no”, era davvero così semplice? Una schedatura politica come precondizione necessaria e non sufficiente per l’impiego. Una schedatura politica discussa e negoziata all’insaputa dell’interessato. Ecco d’un tratto comparire come criterio selettivo per l’impiego non solo l’orientamento sessuale la nazionalità di provenienza o l’estrazione economica. L’orientamento politico: ecco a voi il punto centrale. Per carità, nulla di nuovo in un’Italia che da decenni fa pulizia etnica del pensiero. E per carità, come altro si spiegherebbe altrimenti una proporzione così netta: nelle università attuali il pensiero critico è a zero e i baciapile sono migliaia. Ma la banalità di quella frase era tale da rimbombare: “attivisti no” “attivisti no” “attivisti no”. Davvero era così semplice.
Forse siamo sempre stati davvero troppo naive. Forse qualcuno di noi – con tutta questa tiritera del merito – ha davvero pensato che fosse venuto il suo turno. Forse qualcuno di noi ha pensato che fosse possibile trovare uno spazio, in accademia, perchè è vero: il pensiero critico è più complesso. Gli attivisti sono più colti. Gli attivisti hanno più sensibilità. E’ un dato di fatto, oltrechè una condizione di sopravvivenza. Ma questo non toglie che tutta questa riforma sia stata fatta per tenerli fuori – reclutamento diretto, lo chiamano. O privatizzazione del sapere – una scelta politica precisa e deliberata.
Dunque giusto per ricapitolare. C’è un paese che tra un anno, appena diventa operativo il pareggio di bilancio, diventerà rapidamente più povero della Grecia. Sanità, pensioni e istruzione: le prime a saltare. E poi c’è una pletora di investitori privati che sta a guardare con l’acquolina alla bocca – perché sulle disgrazie altrui c’è molto da investire. Uomini dai volti appena abbronzati e le movenze discrete che non hanno bisogno di esercitare un’autorità. Non hanno bisogno di convincerti, sei tu che devi convincere loro. Loro detengono il denaro, la morale e la verità. Puoi scegliere di esserne parte o di rimanerne fuori. È una scelta tua. L’unica libertà di scelta dei nostri tempi.
dal blog: minima&moralia