“Attivisti no”, ovvero come gli imprenditori privati pasteggeranno sulla crisi italiana..

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di Zoe

 

È un giorno di primavera e il sole inonda i cortili aperti di un vecchio monastero bianco a picco sulla costiera di Genova. Sono arrivati da tutto il mondo nella notte, manager businessmen i nuovi imprenditori della scienza per decidere il futuro del sapere in questo elegante paese anticamente gioviale. Le posture sono sicure e autorevoli, non vi è titubanza nei gesti o nelle parole. Le giacche grigio brillante si riflettono sui volti appena abbronzati e gli occhi blu di fascinosi uomini dalle movenze discrete risuonano nei passi a un tempo misurati e pesanti. Il potere contemporaneo ha una sua particolare fattura. Non esiste più l’autorità, come soleva esistere un tempo. L’autorità è fatta di cordialità leggera e sottile ironia. Ci sono dieci tavoli rotondi inondati di luce. Sembra una antica residenza reale o un pranzo di gala, chissà se anche in Francia tenevano pranzi così eleganti prima della rivoluzione. Sono in buona parte scienziati duri. Vengono dalle nuove tecnologie o dalle scienze ambientali, così facoltose oggi per chi vuole bonificare il mondo – beneficiate dalle stesse compagnie petrolifere che il mondo l’hanno macerato. Qui sostenibilità è la parola chiave. Chi lo sa, forse un tempo nei regimi coloniali fratellanza era la parola chiave. Gli accademici hanno una strana qualità sopraffina. Capiscono subito chi detiene il potere. Sono come cani segugi, annusano ogni angolo di strada e di sterco e scoprono infine dove stanno i soldi. Sembra che esista una specie di regola non scritta in queste circostanze. Il potere non parla molto. Annuisce oppure smentisce. Tutti sanno dove risiede semplicemente perché tutti gli sguardi tornano a lui – maschile singolare. Il potere indica qual è la verità.
Questa per loro è una breve pausa. Riprenderanno la riunione tra quaranta minuti. Ad intrattenerli come coreografici ospiti siamo arrivati in cinque. Alcuni di noi hanno fatto tre ore di viaggio per giungere al cerimoniale. Non tutti sembrano a disagio. Molti anzi sembrano starci comodi in queste corti. Magari una persona più cinica oppure più sveglia di me scriverebbe che la maggior parte di loro vuole starci e basta. Gli imprenditori della conoscenza arrivano da ogni parte del mondo. Giappone Stati Uniti Israele Emirati Arabi Cina e Corea. Si fermano per venti-trenta ore, giusto il tempo di decidere il nostro futuro e di andarsene. E’ questa la governance globale. Aerei privati arrivano e ripartono prima che tu te ne accorga. È una specie di prassi, di questi tempi. Lo smantellamento dell’istruzione pubblica in Italia è una straordinaria opportunità di investimento per gli imprenditori della scienza. Il sapere è denaro e il denaro è sapere. È questa l’equazione dei nostri tempi. Così in quelle sale si decide in quali valori dovranno credere le generazioni future. C’è una sorta di paternalismo dolce nell’aria: cosa vogliamo far sapere a questi giovani. Che cosa vogliamo che imparino e che cosa vogliamo oscurare dalla loro coscienza. Di fatto, il tutto ha l’aria di una specie di esperimento antropologico. Un pò come l’esperimento che fecero alla Scuola di Chicago laddove la gang di economisti più famosa al mondo selezionava in Cile i migliori talenti per poi formarli all’arte sottile del potere e della condiscendenza – la condiscendenza attiva alla dittatura di Pinochet – anche qui bisogna selezionare i migliori. Selezionarli e poi plasmarli a ciò che vogliamo che essi diventino.
Io sono arrivata in ritardo. Non riesco mai ad arrivare puntuale nei luoghi in cui non voglio andare. I posti sono assegnati. Nel mio tavolo c’è un tizio dagli occhi blu ed altre persone. Mi siedo. Scopro in fretta che tutti hanno una teoria sul mondo. L’Italia, per esempio, questa terra triviale stuprata dalla corruzione di giacche eleganti non è in crisi. Fuori non ci sono disoccupati e precari, soggettività tanto esaurite che prima o poi faranno saltare in aria Montecitorio. Non esistono, e se esistono non è quello il luogo in cui discuterne. I fatti, l’esperienza di chi sta ai margini del grande capitale – le frustrazioni di chi è incapace di vivere a questo mondo – non sono di nostro interesse. L’istruzione privata si dissocia da tutto ciò. Non ci dobbiamo fare carico di tutti i problemi del mondo e chi vuole lagnarsi può farlo altrove – qui stiamo costruendo un mondo nuovo. Qui stiamo costruendo un mondo efficiente, un mondo capace di riconoscere il merito e di premiarlo, un mondo eccellente in cui il primo passo per risolvere i problemi è dimenticarli – ricacciarli negli zoo umani di Goya o nelle banlieu parigine dove appartengono.
Parla così il potere contemporaneo. Il fascino discreto del potere si esprime per segregazione abitativa e linguistica. Il punto è che ciò che non porta capitale non esiste. Le potenzialità sociali del sapere? Oh please. Qui importa esclusivamente la sua capitalizzazione. “Stanno chiudendo le università perchè sai, qui sono spuntate come funghi negli ultimi anni”, dice una che in Italia manca da trent’anni. “Ce ne sono troppe”. “Poi in Italia mancano i ranking. Bisogna creare gerarchie, gli atenei devono essere differenziati in base al valore”. Valutazione qualità merito, ecco le parole chiave, le persone vanno selezionate scrupolosamente, ti ricordi Salò di Pasolini: bisogna capire chi ha il buco del culo più fitting. Anche la segretaria ha una propria teoria. “Prima di tutto il merito e gli altri fuori”. Evidentemente ha capito le parole magiche per essere presa sul serio: bisogna imparare a ruminare gli stessi concetti masticati in un dibattito politico senza dignità e poi bisogna essere disposti ad applicarli contro gli altri.
Nietzsche aveva capito tutto dell’eccellenza. È l’unico che l’ha descritta per ciò che è. Aspirare ad eccellere significa desiderare che “il prossimo, esteriormente o interiormente, soffra di noi”, scriveva. “L’aspirazione ad eccellere è l’aspirazione a soggiogare il prossimo”, quella “lunga serie di gradi di sopraffazione segretamente bramata”, che non a caso è “quasi simile a una storia della cultura” (Aurora). Smorfie, raffinatezza e “morbosa idealità”: sembrava parlasse di noi.
Dall’esterno quel palazzo sembrava una struttura principesca. Era la prima giornata di primavera e finalmente potevamo dismettere i cappotti. Smorfie, raffinatezza e “morbosa idealità”: c’era tutto. Era un pranzo fiabesco ma io mi sentivo percorrere la pelle da insetti e scarafaggi – era quella la sensazione – un senso costante di minaccia come se ogni mio gesto potesse essere il pretesto per un’esecuzione. Tsitsi Dangarembga in Condizioni nervose raccontava l’esperienza di sedere a tavola nell’epoca coloniale. Il colonialismo non è solo espropriazione. Il colonialista prescrive la verità. Tsitsi Dangarembga doveva adattare la sua condotta agli standard vittoriani. Nello Zimbabwe inglese doveva imparare a usare la forchetta e a stare seduta diritta. Gli inglesi osservano. Gli inglesi decidono ciò che è giusto e sbagliato. È un’opportunità, che ti viene data, sedere qui a tavola con noi. Il potere va corteggiato, il potere va riverito. Mica vorrai lamentarti, dell’opportunità che ti sta dando il potere?
C’era quest’uomo al mio tavolo, con gli occhi celesti. Era a lui che ritornavano gli sguardi e i silenzi quasi in attesa di approvazione. Mi faceva domande precise con fare in apparenza cortese. Dietro ai suoi sguardi e alle sue domande però non c’era simpatia. C’era intimidazione. Quell’intimidazione lieve che dice, hai capito chi comanda? La capacità di cattura del potere è direttamente proporzionale alla disperazione che crea. Come fate a chiederci di dimenticarla, la vostra capacità di investire sulle disgrazie. Come fate a chiederci di dimenticarla, la vostra condotta di raffinati cannibali.
C’è una cosa che non ho mai capito in quelle circostanze. Non ho capito come fanno gli altri a trovarvisi a loro agio. Io non riesco a respirare. Tutto il mio corpo diventa rigido e il fatto stesso di versare l’acqua sul bicchiere mi sembra un’esposizione eccessiva – cerco il momento in cui gli occhi si distraggono per evitare che qualunque gesto li riporti su di me. Nel tempo ho cominciato a capire che cos’è, la mia. È rabbia. Rabbia. Quel confine sottile tra la docilità e l’ira, perchè non riesco a perdonare questi dittatori passivi. Perchè il loro charm aggressivo aggiunge alla violenza l’ipocrisia. Perchè se davvero volete investire sulle disgrazie abbiate almeno il coraggio di presentarvi come avvoltoi – non come benefattori.
“Questo no, lo studiano gli attivisti”, dice a una donna alzatasi per consultarlo. “Nessun attivista”. Eravamo in quattro in quel momento al tavolo. Il tema era l’attivazione di un nuovo corso di laurea. Il no come al solito era distratto e fermo. Discorso chiuso. “Hai assaggiato il dessert che buono”, chiede volgendosi alla commensale alla sua destra. “Nè saperi critici né attivisti”. Punto.
Il tavolo si ferma. “Ah ho sentito tanto parlare di te”, mi dice qualcuno. Non capivo la relazione tra questa frase e la precedente. O meglio – avevo capito bene? “Attivisti no”. “No ma gli attivisti in qualche fase storica sono stati necessari”, risponde qualcuno all’uomo con gli occhi celesti. Chiediglielo a Rosa Parks a Mandela o ai migranti di Rosarno. Chiediglielo alla badante che gli pulisce il culo a tuo padre perchè i fottuti attivisti sono necessari, pensavo. “Un tempo servivano”, continua. “Oggi c’è Zoe”, dice indicando me. Lo dice seria, senza ironia. Mi sentivo come nelle riserve indiane: ne abbiamo un esemplare. Ora? Possiamo vivisezionarlo, smembrarlo oppure mandarlo direttamente in laboratorio. Che preferite farne? Non capivo. Secondo me non capivano neanche loro, che ci dovevo fare lì. Gli sguardi cercano un’uscita da quella specie di gaffe o impudente rivelazione della verità. “Attivisti no”, era davvero così semplice? Una schedatura politica come precondizione necessaria e non sufficiente per l’impiego. Una schedatura politica discussa e negoziata all’insaputa dell’interessato. Ecco d’un tratto comparire come criterio selettivo per l’impiego non solo l’orientamento sessuale la nazionalità di provenienza o l’estrazione economica. L’orientamento politico: ecco a voi il punto centrale. Per carità, nulla di nuovo in un’Italia che da decenni fa pulizia etnica del pensiero. E per carità, come altro si spiegherebbe altrimenti una proporzione così netta: nelle università attuali il pensiero critico è a zero e i baciapile sono migliaia. Ma la banalità di quella frase era tale da rimbombare: “attivisti no” “attivisti no” “attivisti no”. Davvero era così semplice.
Forse siamo sempre stati davvero troppo naive. Forse qualcuno di noi – con tutta questa tiritera del merito – ha davvero pensato che fosse venuto il suo turno. Forse qualcuno di noi ha pensato che fosse possibile trovare uno spazio, in accademia, perchè è vero: il pensiero critico è più complesso. Gli attivisti sono più colti. Gli attivisti hanno più sensibilità. E’ un dato di fatto, oltrechè una condizione di sopravvivenza. Ma questo non toglie che tutta questa riforma sia stata fatta per tenerli fuori – reclutamento diretto, lo chiamano. O privatizzazione del sapere – una scelta politica precisa e deliberata.
Dunque giusto per ricapitolare. C’è un paese che tra un anno, appena diventa operativo il pareggio di bilancio, diventerà rapidamente più povero della Grecia. Sanità, pensioni e istruzione: le prime a saltare. E poi c’è una pletora di investitori privati che sta a guardare con l’acquolina alla bocca – perché sulle disgrazie altrui c’è molto da investire. Uomini dai volti appena abbronzati e le movenze discrete che non hanno bisogno di esercitare un’autorità. Non hanno bisogno di convincerti, sei tu che devi convincere loro. Loro detengono il denaro, la morale e la verità. Puoi scegliere di esserne parte o di rimanerne fuori. È una scelta tua. L’unica libertà di scelta dei nostri tempi.

 

dal blog: minima&moralia

Assemblea di Roma: casa, reddito e dignità per tutti!

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Riportiamo da infoaut il report dell’assemblea di Roma, dove erano presenti diverse realtà in lotta di tutto il paese. Dai movimenti per la casa ai conflitti sul lavoro, da precari e studenti fino alle lotte territoriali contro la Tav o il Muos. Mentre le singole esperienze si sviluppano e diffondono localmente, l’appuntamento è per tutti il 12 Aprile a Roma.

Numeri delle grandi occasioni, quelli di oggi a Roma per l’assemblea nazionale di movimento, per la costruzione dell’esondazione di primavera e un nuovo ciclo di mobilitazioni. Più di 300 persone occupano i banchi dell’aula magna di Fisica, alla Sapienza.

Presenti tutte le lotte e i soggetti che stanno provando a resistere alla ristrutturazione dall’alto messa in atto dall’Europa delle banche e dell’austerity: movimenti di lotta per la casa, student*, precar*, lotte territoriali, resistenze operaie, sindacati conflittuali*.

L’impegno è presto preso: i movimenti non intendono lasciare il dibattito politico alle cronache sulla riforma della legge elettorale o all’incoronazione di un nuovo leader mediatico per le prossime europee. E’ urgente riprendere la parola e l’iniziativa là dove erano cominciati l’assedio e la sollevazione autunnali, ripartendo da quella Porta Pia che aveva mostrato al paese una composizione eterogenea e meticcia, che non si adatta all’invisibilità e alza la testa per riprendersi casa, reddito e dignità.

Il rinvio sine die del grande evento da contestare (vertice europeo sulla disoccupazione giovanile) non blocca l’iniziativa: possiamo organizzare e costruire una giornata di lotta autonomamente, senza l’appoggio di partiti e sindacati concertativi ma anche senza l’occasione offerta dalla controparte, questa la sfida che l’assemblea di oggi assume come programma di lotta per la primavera che viene, indicando nella giornata del 12 aprile una manifestazione nazionale contro l’austerità imposta dalla troika.

Molti interventi sottolineano le difficoltà del momento ma anche l’occasione di connettere le resistenze e le incompatibilità che iniziano a prodursi nel sociale di una composizione disaggregata, frammentata, spuria. Al centro dell’attenzione molti richiami alla sfida posta dalla modello renziano del Job Act e dal paradigma lavorativo incarnato nel modello Expo2015: lavoro iper-flessibile  e a costo zero.

Molti gli accenni alla soggettivazione politica della Magistratura (nell’esempio della Procura di Torino contro il movimento notav) e alla monetizzazione repressiva dei conflitti sociali. Non a caso il calendario delle mobilitazioni di primavera parte con un appuntamento romano in appoggio alla lotta dei migranti di Ponte Galeria, per chiudere tutti i Cie (15 febbraio) e si arricchisce di una doppia giornata di mobilitazione contro la repressione – che darà seguito al 22 febbraio in solidarietà con il Movimento No Tav – il 14 e 15 marzo (un’assemblea-convegno il primo giorno, una manifestazione il secondo) a Roma.

Da segnalare anche il convegno bolognese sullle risorse e l’uso del denaro pubblico (15 febbraio) e l’appuntamento napoletano per ragionare sull’allargamento degli sportelli per il diritto alla casa a “sportelli sociali” capaci di aggredire i terreni del carovita, mobilità, sanità, tariffe, distacchi delle utenze (2 marzo).

Ma l’altro grande passaggio è l’indicazione per una riappropriazione generalizzata e diffusa sui territori della giornata del 1° maggio, con un’attenzione particolare all’appuntamento romano che intende contestare il carrozzone sindacal-circense del 1° maggio di piazza San Giovanni.

La strada è lunga e l’impogno da profondere tanto…ma se il 2013 è stato solo l’inizio della #Sollevazione, il meglio deve ancora venire…buon 2014!

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Dopo Gezi Park: Don Kisot Sosyal Merkezi, centro sociale occupato

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Davvero, dopo lo sgombero di Gezi park della fine di giugno, a Istanbul non è successo più nulla? La rivolta, la protesta, la più grande insorgenza popolare della storia della Turchia non ha avuto alcun seguito?

Con queste domande in testa torno in città ad agosto, pochi mesi dopo aver vissuto quei giorni di incredibile solidarietà e forza della società civile. Sento subito che qualcosa è cambiato. Dopo le azioni criminali della polizia, molte persone hanno terrore a scendere di nuovo in strada per gridare il proprio dissenso e la loro voglia di libertà. I numeri parlano chiaro: 7 persone uccise, 8000 ferite e più di 2000 arrestate. Allo stesso tempo, però, su un’altra parte consistente della popolazione la repressione ha prodotto l’effetto opposto, convincendo che abbandonare la lotta è terribilmente sbagliato, ma anche che per continuarla bisogna articolarla secondo altri schemi.

I luoghi cambiano. Da Piazza Taksim e Gezi park, i meeting, le assemblee, i forum vengono organizzati in quanti più quartieri possibili, nei parchi o comunque nelle aree pubbliche della città (se ne contano più di trenta).  Yoğurtçu Parkı a Kadıköy (quartiere della sponda asiatica della città) diventa il quartiere dove il forum è più frequentato e partecipato. Da questa esperienza si sono formati diversi collettivi, che praticano alternative di resistenza contro l’autoritarismo di Erdoğan.

Nelle prime settimane di settembre, tuttavia, la violenza della polizia ritorna protagonista della scena. In quei giorni di fine estate, ad Ankara esplode la protesta degli studenti della più importante università turca, attestata da sempre su posizioni antigovernative, la Middle East Tecnichal University (ODTÜ). Gli studenti protestano perché il sindaco, appartenente all’AKP (il partito al governo), vuole costruire, con l’avallo di Erdogan, una nuova autostrada che dovrebbe passare esattamente attraverso il parco dell’Università, luogo storico e uno dei pochi polmoni verdi della città. E nuovamente il dissenso si diffonde in tutte le altre principali città turche, Istanbul compresa. Stavolta è Kadikoy il centro della mobilitazione.

In quegli stessi giorni di settembre, viene organizzato un concerto sul piazzale del porto. In realtà, non si tratta soltanto di un concerto, ma di un momento di rabbia e di omaggio alle vittime uccise dalla polizia. Tra una canzone e l’altra si scandiscono gli slogan della protesta. Un enorme striscione chiede all’AKP di pagare il conto della violenza perpetrata contro i manifestanti. Alcuni amici e parenti delle vittime parlano dal palco. L’atmosfera è carica di emozione, rabbia e voglia di giustizia. Il concerto finisce, ma la gente non può, né vuole tornare a casa come se nulla fosse. Per questo  partono cortei spontanei, ma la polizia ha deciso di non concedere neanche un minuto in più e inizia ad attaccare. Con il solito infame copione: TOMA, idranti, gas lacrimogeni e urticanti lanciati ad altezza uomo. Da quel giorno, per più di una settimana, durante la notte il quartiere diventa lo scenario di nuovi e durissimi scontri con la polizia. I fumi dei gas lacrimogeni sono visibili persino dalla sponda europea. Un ragazzo muore soffocato per i gas all’interno del bar dove sta lavorando. Lo stesso giorno, un ragazzo che era entrato in coma agli inizi di luglio, dopo essere stato colpito da un lacrimogeno, se ne va per sempre. La rabbia diventa di nuovo incontrollabile!

Io vivo a Kadıköy e in quella settimana non ho avuto bisogno di fare molta strada per scendere in piazza: i carri armati (sì! sono esattamente carri armati!) hanno seminato terrore anche di fronte al portone del palazzo dove abito. La risposta del quartiere è stata all’altezza della situazione: sulla polizia piombava continuamente di tutto, dalle finestre venivano lanciate sedie e tavoli, piatti e bicchieri. Ma anche acqua, aceto, limoni e latte per i manifestanti, per supportarli e aiutarli a resistere ai gas. Ancora una volta la città dava sfoggio di tutta la sua solidarietà e forza.

Dopo una decina di giorni di scontri, la polizia ha continuato a minacciare il quartiere con la sua disgustante presenza. Ma nella mente e nel cuore delle persone niente poteva ritornare ad essere come prima: le barricate di giugno, le assemblee estive nei parchi, la guerriglia a Kadikoy, sono stati un punto di cesura, di non ritorno.

E infatti… una notte, passeggiando per il quartiere, noto un edificio abbandonato, con dei poster e con simboli dell’autogestione graffitati sopra. Ha tutte le sembianze di uno squat, di un centro sociale, come siamo abituati a intenderlo in Italia. Rimango sorpreso e incredulo… sarà un caso, mi dico. Non esistono spazi occupati in Turchia, non esistono centri sociali. Figurati con la repressione e la violenza della polizia che c’è da queste parti… posti del genere non possono assolutamente esistere qui. Dai…

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Sono tornato il giorno dopo, di mattina, per capire se avessi ragione oppure no. Che gioia sbagliarmi! Mi trovo di fronte all’ingresso: un brulicare di persone che indossano elmetti di sicurezza, guanti. Hanno fogli in mano con progetti di stanze, carrucole, scalette. Entro: i graffiti sono bellissimi. Ci sono degli stencil a grandezza d’uomo dei 7 ragazzi uccisi dalla polizia. Mi guardo intorno, purtroppo il mio turco è al di sotto della soglia minima di comunicazione, ma fortunatamente più di qualcuno parla inglese. Inizio a fare domande. Sono troppo curioso, voglio capire bene. Un centro sociale occupato a Istanbul, sto sognando.

Dico qualcosa in turco, voglio partecipare, mi danno caschetto e guanti. Detto fatto. Mi trovo con dei ragazzi turchi e curdi a preparare del cemento per alzare un muro. Il ritmo è frenetico, si scherza, mi prendono in giro per l’accento italiano. Finiamo questo muro e scendiamo giù. C’è da portare sul tetto un sacco di materiale. Si suda, si beve il tè caldo, si mangia. L’atmosfera è bellissima. La gente del quartiere passa e dice ‘kolay gelsin’ (‘che vi sia facile’, riferito al lavoro da fare). Qualcuno si ferma a dare una mano, qualcun altro porta del cibo. Si fanno foto.

Durante una pausa chiacchiero con Kadin, che mi inizia a spiegare un po’ di cose. Il posto è stato occupato agli inizi di settembre da un gruppo di persone di questo quartiere, chiamato Yeldeğirmeni , che in italiano significa ‘mulino a vento’. Il primo giorno erano solo in 12, ma con alle spalle moltissima gente, casalinghe, lavoratori, studenti, studenti in erasmus, ingegneri, insegnanti, migranti, artisti, precari, disoccupati. L’edificio era abbandonato da circa 20 anni e durante i meeting a ‘Yoğurtçu Parkı’, dopo varie discussioni sulla necessità di avere un luogo fisico nel quale portare avanti le idee nate a Gezi park, si è deciso di occuparlo. Quindi, continua a spiegare Kadin, questo spazio può essere visto come un effetto, un risultato delle proteste di giugno. Mi dice: siamo le stesse persone che erano accampate a Gezi park. Gli dico che non avevo mai sentito parlare di spazi occupati a Istanbul. Lui risponde che in Turchia, a dire il vero, in diversi quartieri come Sulukule – noto quartiere gipsy – la pratica dell’occupazione ha permesso a molte famiglie di avere almeno un tetto sotto cui dormire. Adesso, però, i piani speculativi vogliono trasformare la zona in un quartiere residenziale. Non è l’unico caso. Mi cita un altro esempio: a Ümraniye – un altro quartiere che si trova vicino Kadikoy – vennero occupate delle fabbriche negli anni ‘70, come atto di resistenza contro i progetti urbanistici del governo di allora. Si trattava di occupazioni caratterizzate da un alto grado di spontaneità.

Kadin cambia discorso e mi parla di quanti suoi compagni hanno avuto esperienze di occupazioni in Europa, in Spagna, Inghilterra, Italia e Germania. Da parte loro c’è il desiderio di creare qualcosa di nuovo, che si differenzi dal modello ‘classico’ delle occupazioni del vecchio continente. Mi dice: ‘Noi abbiamo solo risposto alle domande: Cosa possiamo fare? Di cosa abbiamo bisogno? Ma per il momento la prima necessità è finire i lavori e rendere lo spazio fruibile al massimo’.

Sono curioso di sapere come ha reagito il vicinato. Il mio amico mi spiega che c’è stata prima curiosità e poi un pizzico di diffidenza. Ma questo è comunque il quartiere dove hanno avuto luogo i meeting durante l’estate, quindi i volti degli occupanti erano già conosciuti nella zona. Con il passare dei giorni e dei lavori, i vicini hanno iniziato ad apprezzare, a capire che è un posto aperto a tutti ed è di tutti, ad aiutare, a portare dolcetti a chi lavora all’interno del centro sociale. Kadim dice che adesso, dopo 2 mesi di lavori, il vicinato è alle loro spalle, è pronto a supportarli. Anche perché i ragazzi vogliono che questo sia un punto di riferimento per il quartiere, soprattutto per i bambini e le donne.

Mentre ascolto, penso alla polizia turca, a come ha potuto reagire, a cosa può aver detto. Mi domando se le leggi turche proibiscano le occupazioni. Kadim mi spiega che sono venuti in borghese, per controllare, in diverse occasioni senza dire che erano poliziotti, altre volte dichiarandolo. Ma non sapevano cosa fare. Perché si sono trovati di fronte gente che stava pitturando, disegnando. C’erano bambini e donne. Studenti olandesi in erasmus presso un’università d’arte che abbellivano il centro. E comunque la legislazione, mi dice, è molto lacunosa in materia.

Le attività che si propongono sono tante, ovviamente quelle più legate all’organizzazione politica, ma anche arte, teatro, biblioteca, attività per i bambini, per le donne, cinema… ogni idea è bene accetta. Perché il posto è di tutti.

Non hanno relazioni dirette con i partiti e non ne vogliono avere, ma non mi nasconde che alcuni di quelli che frequentano lo spazio hanno alcuni riferimenti tra i partiti, ma questo non sembra essere un problema.

Come avevo detto in precedenza la zona dove si trova il centro sociale si chiama Yeldeğirmeni, in italiano ‘mulino a vento’. Il nome scelto per lo spazio, quasi ovviamente, è Don Kişot.

 

di Luciano Romanello

http://www.donkisot.info/#sthash.kkZDMrpk.dpuf

 

 

Amburgo ci insegna una nuova parola: gefahrengebiet.

Ad Amburgo c’è il coprifuoco.
Ad Amburgo c’è una zona rossa circondata da plotoni.
Ad Amburgo ci sono migliaia di poliziotti in piazza e ogni foglia che si muove viene identificata e portata via.
Ad Amburgo son settimane che accadon cose… che nessuno sembra volerci raccontare.

Ad Amburgo c’è un vecchio teatro che dal 1989 è stato rinominato RoteFlora, ad Amburgo c’è un bel gruppo di migranti e militanti che dopo i morti di Lampedusa ha deciso di non tornare a casa in silenzio, ad Amburgo ora si ha a che fare con la legge marziale, almeno questo è quel che sembra a guardar un po’ di immagini distrattamente, ad Amburgo c’è una zona detta “gefahrengebiet” che solo se provi ad attraversarla ti arrestano.
Lo possono fare, come se niente fosse: ti fermano perchè esisti, e lì non devi esistere. Punto.

Difficile fare un riassunto dei fatti, perché son tanti e si accavallano tra le ultime settimane di dicembre e questo inizio d’anno: dal tentativo di sgombero del Rote Flora, all’immediata criminalizzazione del movimento nato dopo l’eccidio (posso chiamarlo così) di Lampedusa che non ha mai potuto muovere un passo senza esser caricato violentemente, passando per l’ “evacuazione” dell’ Esso-Hauser, un complesso di vecchi edifici, che verranno demoliti a luglio, senza che i 70 abitanti possano proferir parola (per ora sono sistemati in alberghi e avranno assistenza statale per una casa alternativa a quella da dove son stati evacuati)… la notte di capodanno poi (e questo è uno dei motivi per cui è stata dichiarata la gefahrengebiet) ci sarebbe stato un attacco degli Autonomen contro la Davidwache, il commissariato di polizia a St.Pauli, durante il quale sarebbero rimasti feriti due poliziotti. Peccato che uno stesso comunicato della polizia parla di scontri con gli Autonomen sarebbero avvenuti a diverse centinaia di metri dal commissariato.

Insomma, Amburgo ribolle e lo Stato pensa bene di rispondere a tutto ciò con l’istaurazione di uno stato di guerra.
Nella zona che è stata dichiarata gefahrengebiet vivono migliaia di persone: possono recarsi a casa solamente a piedi, e una volta raggiunta non devono lasciarla, se non in orari prestabiliti. Se sei un giornalista ti ritirano il tesserino e te lo distruggono , se sei un fotografo… peggio. Il coprifuoco per migliaia di persone.
Per quanto? e poi dove ancora?
La gentrificazione avanza a mano armata, col grasso appena passato sugli anfibi.

In questo paese abbiamo ambasciate, consolati e molto altro battente bandiera tedesca. Dovremmo pensare ad una gefahrengebiet: Per loro!

da communianet.orgpolizei